Umberto Eco: perché con i suoi libri ha modificato lo stile della scrittura del '900

Daily / News - 20 February 2016 12:45

Umberto Eco, lo scrittore scomparso all'età di 84 ha modificato lo stile della scrittura del '900: sia per motivi narrativi che di reperimento delle fonti.

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Il motivo per cui Umberto Eco - scomparso ieri all’età di 84 anni - ha modificato lo stile di scrittura del ‘900 è dovuto alla commisstione di elementi narrativi e investigativi.

I primi subiscono il rigore dei secondi: per redigere “Il nome della rosa” (1980) ha impiegato circa due anni, in cui ha eseguito uno studio sugli elementi fondamentali del periodo analizzato, documentandosi sulla struttura concettuale di quel periodo. L’autore ha “passato un anno intero senza scrivere un rigo. Leggevo, facevo disegni, diagrammi, insomma inventavo un mondo. Ho disegnato centinaia di labirinti e di piante di abbazie, basandomi su altri disegni, e su luoghi che visitavo” (Postille a Il nome della Rosa).

La storia è ambientata nel Medioevo, quando il frate francescano Guglielmo da Baskerville e l’allievo Adso da Melk visitano un monastero benedettino nell’Italia settentrionale: qui si susseguono una serie di omicidi, cui si tenta di rinvenire il movente.

Se nell’anno 1327 si parlava dell’innamoramento come di una malattia, è perché Umberto Eco ha studiato i volumi prodotti in quel periodo, da cui emerge che quel modo di concepire era giusto. “Mi commossi così sulle pagine di Ibn Hazm, che definisce l’amore come una malattia ribelle - dice il personaggio Adso nel Quarto Giorno: Dopo Compieta - che ha la sua cura in se stessa, in cui chi è malato non vuole guarirne e chi ne è infermo non desidera riaversi (e Dio sa se non fosse vero!)”.

Dagli studi di medicina si evinceva che l’innamoramento produceva malesseri fisici: “Talora il male sopraffà il cervello, si perde il senno e si vaneggia (evidentemente non ero ancora giunto in quello stato, perché avevo lavorato assai bene ad esplorare la biblioteca)”.

Così accade per altri elementi: il prolungarsi dei dialoghi in alcuni momenti, era dovuto invece ad una struttura narrativa che Umberto Eco ha cercato di inserire in quella fase documentale. Se era giusto che quegli elementi non fossero presenti nel romanzo perché in quel periodo erano inesistenti, era altrettanto giusto creare un dialogo inusuale per quel periodo, ma che restituisse una vita del personaggio - in questo caso Adso - nuova e moderna.

Di post-modernismo si è infatti parlato per Umberto Eco, ossia della possibilità di usare la narrativa finora esistente in maniera nuova, come un collage picassiano che porta a fare interagire materiali difformi. Ampliare il dialogo di un personaggio oltre il lecito, era soffermarsi su un momento con una lente d’ingrandimento, per raccontare una visione che altrimenti sarebbe sfuggita. Come fa un altro post-moderno, ovvero Quentin Tarantino nel film “Pulp Fiction” facendo disquisire in un pub di massimi sistemi o di passi della Bibbia ad opera di Jules Winnfield (Ezechiele 25:17, in realtà inesistente).

Umberto Eco ha poi ricreato con questi meccanismi in maniera semiotica: ovvero ha fatto convergere i dettagli verso un unisco senso. Il risultato è che il lettore ne “Il nome della rosa” pensa proprio di vivere in quel periodo, con quelle mensole appese ai muri, con quali barili di sangue di maiale. Tutti i dettagli allineano l’immaginazione affinché si creda di essere lì. E il risultato ha poi un aspetto commerciale notevole, perché il passaparola di questa precisione narrativa ha permesso al volume di vendere 50 milioni di copie con traduzioni in 40 lingue, risultando tra i venti libri più venduti di sempre (dopo “Racconto di due città” di Charles Dickens, 1859; “Il Signore degli Anelli” di J. R. R. Tolkien, 1954 e “Il codice Da Vinci” di Dan Brown, 2003).

L’ultimo lavoro di Umberto Eco è sardonico: “Numero zero” del 2015, dove uno scrittore fallito lavora in una strampalata redazione di un giornale dal titolo “Domani", destinato a non essere mai pubblicato.

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