Il Gattopardo, Tomasi di Lampedusa: se non ci siamo anche noi, quelli ti combinano la repubblica

Libri / News - 18 February 2014 14:05

Giuseppe Tomasi di Lampedusa scrive "Il Gattopardo" ispirandosi alle cronache di famiglia

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Il Gattopardo, lo stemma di famiglia e l'ultimo suo erede - Il Principe, Don Fabrizio, è immenso e fortissimo: «la sua testa sfiorava (nella case abitate dai comuni mortali) il rosone inferiore dei lampadari; le sue dita potevano accartocciare come carte velina le monete da un ducato; e fra villa Salina e la bottega di un orefice era un frequente andirivieni per la riparazione di forchette e cucchiai che la sua contenuta ira, a tavola, gli faceva spesso piegare in cerchio. Quelle dita, d'altronde, sapevano anche essere di tocco delicatissimo nel maneggiare e carezzare e di ciò si ricordava a proprio danno Maria Stella, la moglie; e le viti, le ghiere, i bottoni smerigliati dei telescopi, cannocchiali, e “Cercatori di comete” che lassù, in cima alla villa, affollavano il suo osservatorio privato si mantenevano intatti sotto lo sfioramento leggero». Sette figli e un nipote, Tancredi, cresciuto nella sua casa e amato più della sua stessa prole. 

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Don Fabrizio ama la matematica e l'astronomia. Contempla i cieli notturni, insieme al dissesto del proprio patrimonio e la caduta della nobiltà, con indolenza. Lo preoccupa Tancredi, un Falconieri che si è unito ai Garibaldini. L'eleganza, l'intelligenza, il brio giovanile, l'adattabilità sociale, lo spirito arguto: tutte virtù che fanno del nipote il discendente indiretto al passo con i tempi, dentro la Storia. Tancredi rassicura l'amato “zione” «con una delle sue crisi di serietà che lo rendevano impenetrabili e caro. “Se non ci siamo anche noi, quelli ti combinano la repubblica. Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi. Mi sono spiegato?”» - tra le citazioni del libro.

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La scelta di Tancredi sarà lungimirante: stare dalla parte dei vincitori, i Garibaldini oggi, le truppe del Re di Sardegna domani, garantisce la sopravvivenza del prestigio del casato perché «molte cose sarebbero avvenute, ma tutto sarebbe stato una commedia, una rumorosa, romantica commedia con qualche macchia di sangue buffonesca». Tuttavia, in Don Fabrizio s'insinua il presagio dell'inesorabilità del declino. Durante il soggiorno estivo nella tenuta di Donnafugata, nell'agosto del 1860, il Principe viene a sapere dell'enorme fortuna accumulata da Don Calogero Sedàra che eguaglia quella dei Salina. Il riassunto della contabilità delle proprietà, a cura di Don Onofrio, comprende anche gli ultimi pettegolezzi: alle prossime elezioni, Don Calogero potrebbe diventare deputato a Torino; la figlia Angelica, tornata dal collegio fiorentino, gira agghindata con sottane rigonfie e nastri di velluto. Eppure erano cose da mettere in conto, riflette Don Fabrizio.

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Il primo pranzo a Donnafugata è un appuntamento solenne. Don Fabrizio non transige su una sola cosa: mettersi in abito da sera per non imbarazzare gli ospiti che evidentemente non ne possiedono. Ma Don Calogero giunge in frack. Dopo aver digerito la ricchezza del vassallo di un tempo, ora è costretto a riceverlo in abiti pomeridiani. Lo consola il taglio “mostruoso” dell'abito: «Il Verbo londinese si era assai malamente incarnato in un artigiano girgentano cui la tenace avarizia di Don Calogero si era rivolta. Le punte delle due falde si ergevano verso il cielo in muta supplica, il vasto colletto era informe e, per quanto doloroso e necessario dirlo, i piedi del sindaco erano calzati da stivaletti abbottonati». La comparsa della figlia Angelica, in ritardo, invece ammalia tutti i presenti - bellissima, con i capelli color notte e gli occhi verdi - e, soprattutto, Tancredi che deciderà di prenderla in moglie spezzando il cuore della cugina Concetta. Don Fabrizio ama la figlia, ma deve ammettere che la scelta del nipote è, ancora una volta, quella più giusta: Tancredi, «l'alfiere di un contrattacco che la nobiltà; sotto mutate uniformi, poteva portare contro il nuovo ordine politico», ha bisogno di soldi. Soldi per comprare i voti, soldi per fare favori agli elettori, soldi per assicurarsi un brillante avvenire. Certo, Angelica non ha natali illustri, anzi - la madre, «una bellissima giumenta, voluttuosa e rozza» che il marito tiene accortamente nascosta, è figlia di quel 'Peppe Mmerda' - ma tutto si aggiusterà. Don Fabrizio arriverà persino ad ammirare, con bonario disprezzo, la cinica scaltrezza del sindaco in materia di affari. E Don Calogero imparerà certe buone creanze, come radersi meglio o spaventarsi di meno riguardo alla quantità di sapone nel bucato. Poche cose, nulla di più, «ma fu da quel momento che si iniziò, per lui e i suoi, quel costante raffinarsi di una classe che nel corso di tre generazioni trasforma efficienti cafoni in gentiluomini indifesi».

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Fatta l'Unità d'Italia, a Palazzo Salina, Don Fabrizio riceve la visita del cavaliere Chevalley di Monterzuolo. Il funzionario piemontese è incaricato di offrire al Principe la carica di senatore. L'intenzione è buona ma tardiva, Don Fabrizio declina offerta a favore del cognato, Don Calogero. Chevalley non comprende la rinuncia. Né può comprendere - lo giustifica Don Fabrizio - i Siciliani, la Sicilia, l'ambiente, il clima, il paesaggio: cose che «hanno formato il carattere nostro che rimane così condizionato da fatalità esteriori oltre che da una terrificante insularità d'animo». Il Gattopardo, magnanimo, allunga la zampa raddrizzando l'analisi sbieca dell'ingenuo Piemontese: «Adesso anche da noi si va dicendo in ossequio a quanto hanno scritto Proudhon e un ebreuccio tedesco del quale non ricordo il nome, che la colpa del cattivo stato delle cose, qui ed altrove, è del feudalesimo: mia cioè, per così dire. Sarà. Ma il feudalesimo c'è stato dappertutto, le invasioni straniere pure. Non credo che i suoi antenati, Chevalley, o gli squires inglesi o i signori francesi governassero meglio dei Salina. I risultati intanto sono diversi. La ragione della diversità deve trovarsi in quel senso di superiorità che barbaglia in ogni occhio siciliano, che noi stessi chiamiamo fierezza, che in realtà è cecità. Per ora, per molto tempo, non c'è niente da fare. Compiango; ma, in via politica, non posso porgere un dito. Me lo morderebbero. Questi sono discorsi che non si possono fare ai Siciliani; ed io stesso, del resto, se queste cose le avesse dette lei, me ne sarei avuto a male”. L'indomani mattina, al commiato, il Principe, depresso, riflette: “Tutto questo non dovrebbe poter durare; però durerà, sempre; il sempre umano, beninteso, un secolo, due secoli...; e dopo sarà diverso, ma peggiore. Noi fummo i Gattopardi, i Leoni; quelli che ci sostituiranno saranno gli sciacalletti, le iene; e tutti quanti Gattopardi, sciacalli e pecore, continueremo a crederci il sale della terra».

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Alla sua morte, Don Fabrizio conta le “pagliuzze d'oro” della propria vita separandole “dall'immenso mucchio di cenere delle passività”. Ritornando con la memoria al diario dei momenti felici, deve arrendersi all'ironia della sorte: «Ho settantatrè anni, all'ingrosso ne avrò vissuto, un totale di due... tre al massimo”. E i dolori, la noia, quanto erano stati? Inutile sforzarsi a contare: tutto il resto: settant'anni».
Il futuro dei Salina? Perduto. Fabrizietto, il figlio di Tancredi e Angelica, sarebbe cresciuto con i ricordi simili a quelli dei suoi compagni di ginnasio. E Concetta, l'unico carattere in cui “si perpetuava una vera Salina”, non avrebbe avuto discendenti.
Infine lui, Don Fabrizio, il Gattopardo: l'ultimo a possederne il ricordo.

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