Recensione del film Il prigioniero coreano
Cinema / Recensione - 14 March 2018 10:00
Kim Ki-Duk nelle è il regista del film Il prigioniero coreano.
Il prigioniero coreano è il film di Kim Ki-Duk nelle sale.
Nam Chul-woo (Ryoo Seung-bum) è un povero pescatore che vive nella Corea del Nord con la moglie e la figlia. Un giorno la sua rete viene catturata dal suo motore, e quando la sua barca scivola accidentalmente nelle acque della Corea del Sud lui è sospettato di essere un disertore o una spia. Così sopporta interrogatori, percosse nel tentativo di tornare dalla sua famiglia.
Nam Chul-woo (Ryoo Seung-bum) è un povero pescatore che vive nella Corea del Nord con la moglie e la figlia. Un giorno la sua rete viene catturata dal suo motore, e quando la sua barca scivola accidentalmente nelle acque della Corea del Sud lui è sospettato di essere un disertore o una spia. Così sopporta interrogatori, percosse nel tentativo di tornare dalla sua famiglia.
Con rara limpidezza Nam Chul-woo rappresenta le ingiustizie di cui siamo costantemente vittime, senza che nessuno ci abbia preparato a questa battaglia. E sopratutto tale insipienza di cui siamo succubi è più tangibile se avvicinata agli affetti cui siamo legati, che nel caso di Nam Chul-woo sono la famiglia.
Quando l’uomo viene arrestato e interrogato, comprende che nulla sarà come prima, e sopratutto che il pregiudizio avrà la vittoria su di lui. “Tu devi smetterla di prendermi in giro”, urla contro il funzionario cercando di strangolarlo.
Nam Chul-woo cerca di tagliarsi la lingua con i denti, emerge tutta la volontà di un popolo di sbraitare la propria rabbia, pur se nella sordità degli interlocutori. Il film risente di un eccessivo reiterarsi di momenti relegati all’interrogatorio, ma era questo senso claustrofobico che Kim Ki-duk voleva trasmettere, proprio come nei precedenti film X”one on One” (2014), in cui una ragazza del liceo viene brutalmente assassinata e i sette sospetti vengono braccati da membri di un gruppo terroristico; “Stop” (2015), dove una giovane coppia esposta alle radiazioni durante il crollo del reattore nucleare giapponese di Fukushima deve decidere se tenere il bambino nascituro, temendo che sarà disabile. In “Moebius” (2013), in cui si mostra il rapporto perverso tra un padre, la madre e il figlio. In “Pietà” (2012, leggi la recensione) in cui un trentenne orfano diventa un sadico che lavora per uno strozzino, con il compito di riscuotere i crediti.
Per il regista corano non c’è modalità di discorso al di fuori della provocazione ,e ciò rende i film spesso ripetitivi, per lo stesso meccanismo per cui è più facile far parlare di se stessi essendo trasgressivi, che non razionali.
Ne “Il prigioniero coreano” questo aspetto eversivo però viene quasi rassodato, proprio perché trova nella polemica politica il suo sfogo. Un messaggio raro nel cinema di Kim Ki-duk, che così si costringe dentro i paletti del pamphlet che paiono più consoni al suo estremismo di quanto non lo siano i facili escamotage narrativi.
E lo sguardo di sua figlia, che gioca con un orsacchiotto non consapevole delle difficoltà del padre è forse l’offerta di ottimismo migliore che un’immagine possa gesticolare.
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