Intervista A Vincenzo Cerami
Vincenzo Cerami risponde alle domande di Mauxa

Rimini - In occasione del convegno \"Il mio Fellini\", abbiamo incontrato lo scrittore e sceneggiatore Vincenzo Cerami. Della sua vasta filmografia (ha lavorato con Pasolini, Monicelli, Citti, Amelio, Bellocchio, Bertolucci, Scola, Albanese), citiamo solo i film con Roberto Benigni: Il piccolo diavolo (1988), Johnny Stecchino (1991), Il mostro (1994), il premio Oscar La vita è bella (1997), Pinocchio (2002), La tigre e la neve (2005). Che tipo di regista era Fellini sul set?Vincenzo Cerami: Fellini usava la retorica di chi non sa da dove cominciare. In realtà lo sapeva, ma preferiva dare suggestioni per permetterci la massima libertà creativa. Io, personalmente, cerco sempre di vedere la fine di una storia, processo narrativo che al regista di solito non interessa affatto, e tanto meno a Fellini. La sua poetica non prevedeva la struttura del racconto, il suo mondo non aveva bisogno di sceneggiatori. Mi spiego, in \"La voce della luna\" Benigni doveva restituire quell\'immagine che Fellini aveva di lui, del personaggio Benigni, e la battuta in realtà era spesso inserita dopo, in fase di post produzione, nel doppiaggio e veniva costruita sulla sua espressione, sul comportamento, sul gesto: questo è Fellini, ma non è cinema.
Cioè, se dovesse definire il cinema di Fellini?
Vincenzo Cerami: La verità è che Fellini è l\'anticinema. Il suo modo di fare cinema non è copiabile. Il linguaggio felliniano è volutamente bidimensionale. I personaggi sono da fumetto, senza alcun background. Direi che Fellini lavorava più con la tecnica di chi fa lo storyboard, lavorava sulla storia obbedendo più al linguaggio dei fumetti che non a quello cinematografico: per lui contava l\'incanto dell\'immagine, contava la scena intesa in maniera totalizzante. Le sue storie sono esili, tutte di pretesto, i suoi film non hanno mai un impianto drammaturgico, non ci trovi mai un personaggio o una storia compiuta.
Più debitore di Pratt e di Manara?
Vincenzo Cerami: Sì, Pratt e Manara potevano insegnargli più di un qualsiasi film. A Fellini poi non piaceva andare al cinema, non ci andava mai. La sua era una vocazione antirealista, e non gli interessava minimamente la struttura del romanzo borghese in cui il personaggio compie un percorso di formazione. I suoi film sono antropologici, ma mai psicologici: il suo cinema è il grande affresco di un\'epoca, in cui i personaggi sono una serie di maschere utilizzate a suo piacimento, sempre e solo unicamente a servizio del suo immaginario onirico, il luogo in cui la follia e la realtà si confondono. L\'universo felliniano è così forte, potente e suggestivo stilisticamente che, ripeto, il suo non è cinema. E Fellini non è imitabile.
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