Recensione del film Split
Cinema / Recensione - 26 January 2017 07:30
M. Night Shyamalan dirige il film horror "Split": alterna linearità della trama a forti caratterizzazioni.
Split è il film horror di M. Night Shyamalan con James McAvoy, Anya Taylor-Joy e Betty Buckley.
La storia è quella di Kevin (McAvoy) che dopo un abuso subito da piccolo cresce sviluppando 23 personalità. Ognuna di esse lo porta ad assumere una propria particolare fisicità, da bambino o da donna, fino ad animale.
È quello l’aspetto più interessante del film di Shyamalan, aver scelto un tema patologico - che a pochi potrebbe interessare - per ricondurlo all’aspetto visivo. Ovvero alla possibilità che il protagonista assuma fisicamente altre sembianze, aprendo la strada a ciò che il cinema deve mostrare, ovvero una sensazione attraverso le immagini. Ed in questo caso la sensazione da veicolare è quella dell’horror, la paura che nella vita quotidiana può ammassare le persone.
Kevin rapisce tre ragazze, le rinchiude in casa: anche la scelta di un rapimento di cui sono vittime donne e non uomini alimenta l’aspetto di libidine del protagonista, che velatamente non riesce ad esprimere. La psichiatra di Kevin, la dottoressa Karen Fletcher (Betty Buckley) è una donna, quasi a significare l’assenza di una figura materna che Kevin sublima con il trasformismo. Un tema già presenta in un thriller di simile impianto agitato, ovvero “Psyco” (1960) in cui Alfred Hitchcock fa vestire il protagonista Norman Bates dalla defunta madre Norma.
Così una semplice storia di sequestro, diviene una narrazione nuova, che Shyamalan riesce a gestire con rara perizia, almeno da “The Sixth Sense - Il sesto senso” (1999). Infatti nei film successivi si era sempre basato su criteri di suspense dall’opinabile tirante narrativo: non si fa un buon thriller solo evitando di raccontare al lettore un aspetto che andrebbe invece palesato, e che il protagonista ignora.
Questo rischio invece Shyamalan in “Split” non lo corre, tanto che si è a lungo documentato per sviluppare il film, usando anche fogli appunti delle lezioni di psicologia seguite all’università, incontrando psicologi. Da ciò emerge proprio la necessità di configurare il protagonista, che pur se dal carattere multiforme ha una sua coerenza organizzata. “Nel Disturbo Dissociativo dell’Identità ogni personalità individuale crede di essere ciò che è - dice il regista - Se una personalità pensa di avere il diabete o il colesterolo alto, può il loro corpo cambiare chimicamente? In questo momento, l’argomento è oggetto di discussione in tutto il mondo”. Un dubbio scientifico diventa quindi anche una possibilità paurosa. “Prendo qualcosa in cui si crede e lo spingo oltre. Con il Disturbo”.
Shyamalan riesce con un budget limitato - 10 milioni di dollari - a manipolare il pubblico, senza l’uso di effetti in CGI. A ciò si unisce l’interpretazione atavica di McAvoy, che per ogni personalità sa assumere una mimica facciale diversa. Lui è anche attore teatrale, capace di cambiare in un attimo quello si pensa, e rendere palesi queste obiezioni. In alcune scene eseguiva lui stesso delle prodezze fisiche come il salto degli ostacoli e le scalate, fino a rimpicciolirsi di più di cinque centimetri quando interpreta Hedwig o si irrigidisce nei panni di Dennis.
Ecco che l’immedesimazione dello spettatore risulta totale, esplorando le modalità in cui noi stessi affrontiamo i traumi.
La produzione è della Blumhouse Productions, che ha lavorato anche a “La notte del giudizio”, “Ouija: Origin of Evil”, “Paranormal Activity”. A ciò si unisce la scenografa precisa di Mara LePere-Schloop, che con sfumature fa emergere i vari strati della storia. Vari colori riflettono le diverse personalità di Kevin, con il mondo sotterraneo del piano interrato che ha un colore filettato, desaturando il resto. Mentre ci sono colori più vivaci nell'azione più intensa e violenta del film.
© Riproduzione riservata