Alla ricerca di Dory: recensione del film in cui si valicano i propri limiti attraverso un dono

Cinema / Recensione - 14 September 2016 08:00

Andrew Stanton torna a dirigere, dopo il successo di Alla ricerca di Nemo, il film d'animazione che vede come protagonista la smemorata Dory, per una nuova avventura marina firmata Disney Pixar.

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Film Tully

La Disney Pixar si tuffa nuovamente in un’avventura che vede come protagonisti gli indimenticabili personaggi di Alla ricerca di Nemo, concentrandosi questa volta su un film che assume i contorni di spin-off ruotante intorno al pesciolino che è rimasto nella memoria di tutti gli spettatori, grandi e piccini, per la sua caratteristica perdita di memoria a breve termine: le sale sono pronte ad accogliere Alla ricerca di Dory, diretto da Andrew Stanton.

La trama di Alla ricerca di Dory ripercorre l’idea del primo Alla ricerca di Nemo, ossia quella di un viaggio nelle profondità dell’oceano, ma questa volta si assiste ad un moto contrario: non è il genitore che, avendo perso il figlioletto, si incammina per ritrovarlo, ma è il figlio, o meglio la figlia, la piccola Dory ormai cresciuta, che tenta di rintracciare i suoi genitori, cercando anche di capire come abbia fatto ad allontanarsi dalla sua famiglia. Scortata da Nemo e dal padre di quest’ultimo, Marlin, Dory inizia a ricordare barlumi di infanzia e decide così di partire alla ricerca dei genitori. Giunta presso il Parco Oceanografico in California, un acquario che presenta anche un centro di riabilitazione, Dory farà nuove amicizie, tra cui il burbero polpo Hank, che l’aiuterà a “spostarsi”, mimetizzandosi, all’interno della struttura, e ne rincontrerà di passate, come lo squalo balena miope Destiny, per un labirinto di avventure che le permetteranno di rinforzare la fiducia in se stessa.

Andrew Stanton torna alla regia del nuovo capitolo Disney Pixar ambientato nelle profondità marine dopo ben 13 anni trascorsi dall’uscita di Alla ricerca di Nemo, vincitore del premio Oscar nel 2004 come Miglior film d’animazione. Questa volta curando la regia insieme ad Angus MacLane, invece che avendo al fianco Lee Unkrich, Andrew Stanton riconduce sul grande schermo quel mondo acquatico creato nel 2003, riproponendo un tema comune ad entrambi i film, ossia l’attaccamento alla famiglia, seguito dal ritorno a casa. Diverse peripezie fanno parte dell’estenuante viaggio compiuto dagli eroi animati non solo per giungere verso l’oggetto materiale della ricerca (il piccolo Nemo nel primo film, i genitori di Dory in Alla ricerca di Dory), ma anche per ritrovare sicurezza interiore e riuscire a valicare quei limiti che sembravano impossibili, nel caso di Dory la possibilità di fondare sui suoi ricordi, quindi sulle sue abilità, senza doversi appoggiare ad appigli esterni.

Si scava nei barlumi di ricordo di Dory, si tracciano le sue origini, non dimenticando di divertire con simpatiche gag fondanti sulla parola o sull’azione, gag sostenute in modo particolare dai nuovi personaggi in due duo comici: da una parte il duo composto da Fluke e Rudder, due leoni marini visibilmente attaccati al loro scoglio, dall’altra lo squalo balena miope Destiny in coppia con Bailey, un beluga dal sonar ipoteticamente difettoso, ma in realtà capace, credendo di più in se stesso, di tracciare la posizione di corpi in movimento, anche fuori dagli ambienti marini.

Alla ricerca di Dory, dunque, punta sui personaggi cardine di Alla ricerca di Nemo, ma portando più in superficie, tra gli altri temi già elencati, anche quello inerente alla considerazione delle proprie peculiarità come dono e non come menomazione. La perdita di memoria a breve termine rende Dory quel che è, qualifica la sua personalità come unica ed originale, dunque il film insegna ad accettare se stessi per quel che si è, abbattendo le barriere della diversità con sana comicità.

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