Festival di Venezia 2017, recensione del film 'Mother'

Cinema / Festival / News - 05 September 2017 14:00

"Mother" è il film in concorso presentato alla Mostra del Cinema di Venezia

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Daren Aronofsky con il film “Mother” tenta la strada dell’allegoria, ma inutilmente. Fagocitato da un’era trumpiana in cui il diverso è da allontanare, sobbarca di questo peso l’attrice Jennifer Lawrence, moglie mesta alla mercé del personaggio del marito interpretato da Javier Bardem, uno scrittore fallito.

Nella loro casa paradisiaca il marito - senza nome - ospita a sorpresa un medico che cercava un bred e breakfast. La moglie ha già delle visioni di pareti che si riempiono di forme nere, mentre cerca di stuccare le pareti della stanza. Lei ha accuratamente ristrutturato la magione del marito, che si estende su due piani, con in cima la stanza dello scrittore che non riesce a creare.

La mattina seguente entrano nella villa anche la moglie del medico - una indecifrabile Michelle Pfeiffer - penetrando anche nella vita della giovane donna, che nulla può contro l'ospitalità tediosa del marito. Seguono domande inopportune della donna, rivolte al personaggio di Jennifer Lawrence, sulla mancata gravidanza, sul perché temporeggi ad avere un figlio. La giovane donna vagola nella casa alla ricerca di un momento di pace, mentre il marito è sempre più intimo del medico e la casa si popola di strane presenza. I figli del medico irrompono, fino a commettere un omicidio che è il preludio di un’atroce invasione.

Jennifer Lawrence è onnipresente nelle inquadrature, dovendo rendere la potenza di una donna non-madre che vorrebbe difendere un figlio che non ha. Quando resta finalmente incinta mostra un carisma che per metà film era nascosto dietro sospiri e sguardi persi tra le pareti casalinghe. Finché dei giornalisti assediano la casa perché vogliono parlare con lo scrittore, preludendo ad una massiccia irruzione che conduce il film verso un finale inatteso.

L’allegoria cui Daren Aronofsky aspira è quella dei grandi classici della letteratura, come. Samuel Taylor Coleridge di “La ballata del vecchio marinaio’ o Franz Kafka de “Il processo” o “Preparativi di nozze in campagna”, fino al post-modernismo di Quentin Tarantino o Emir Kusturica. Oppure un film altrettanto cruento come “Il Satyricon” di Federico Fellini, ambientano nell’antica Roma con Ascilto ed Encolpio alla ricerca di un senso alla barbarie ingorda che li circonda. Ma troppo forzata è la struttura della storia, con simboli che richiamano un senso difficile da rendere palpabile allo spettatore: suono amplificati, vespe che muoiono sul lavandino, macchie di sangue che bucano il pavimento, un gioiello che pare essere il motore della storia e rinvenuto in un’improbabile posizione. Se l’obbiettivo del film era mostrare come l’atavica paura di perdere i punti di riferimento nella società, e in particolare la sicurezza della propria abitazione contro i nemici esterni, ciò non è reso con completezza. Vari significati si rincorrono in sequenze spezzate che hanno poca plausibilità l’una con l'altra.

E Jennifer Lawrence deve cercare di radunare questi vetri rotti, con una forza disumana anche per lei.

© Riproduzione riservata



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