Venezia 81: recensione film Iddu, il volto sfilacciato della mafia
Scopri la recensione di Iddu, il film in concorso a Venezia 81 con Elio Germano, Toni Servillo: trama, cast, critica

Se l’ispirazione alla figura del boss latitante Matteo Messina Denaro è solo allusa, altrettanto indefinita è la tensione del film. Quello che dovrebbe essere un crime, si rivela farsesco, nel momento in cui Servillo concede atteggiamenti da commediante al suo personaggio.
Catello è un ex preside, che si danna per essersi fidato di suoi presunti amici, e che per tali errori ha scontato il carcere: almeno così afferma, perché per l’ispettrice (Daniela Marra) questa è la frase che si ripete allo specchio. Dall’altra parte Matteo, pur essendo un boss mafioso, non dà prova della sua criminalità, essendo sempre vincolato nel suo rifugio: l’unico gesto inconsulto che commette è dare fuoco a un vigneto.
La rappresentazione della mafia in Iddu
La trama poteva essere intrigante per come intende la possibilità di sfruttare l’ingenuità del boss attraverso uno scambio epistolare: ma non lo è altrettanto la narrazione, che si sfilaccia tra i dubbi di Catello, le insistenze delle forze dell’ordine nel convincerlo del doppiogioco, le paturnie della sorella di Matteo, che deve badare al nipote. Infatti, Matteo non ha mai avuto rapporti con il figlio, proprio per scongiurare la cattura: ma anche in questo caso, la presenza del bambino si palesa solo alla fine, e non essendo anticipata prima, appare come strategica alla conclusione.
Il film è tratto da Lettere a Svetonio, raccolta di missive (2003–2007) del capomafia Matteo Messina Denaro dirette a un ex sindaco di Castelvetrano che corrispondeva con lui: lì il boss riempiva i propri testi di citazioni colte e lasciava intravvedere una personalità complessa, che invece nel film è esiliata nelle quattro mura del suo rifugio. Elio Germano infonde un brio cupo al personaggio, e Toni Servillo dà a Catello l’aria dell’uomo rassegnato, ormai conscio di una giustizia superiore. La regia di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza, che hanno già diretto episodi di Gli orologi del diavolo, cerca di restituire l’enigmaticità della situazione, in bilico tra pericolo e desiderio di fuga. Ma non basta per rappresentare la mafia, che in ben altre opere assume connotati più sinistri, non isolati a soli scambi di lettere.
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