Recensione Ognuno ha diritto ad amare, il premio che ha scioccato i critici a Berlino
Cinema / Recensione - 12 February 2019 14:45
In sala dal 14 febbraio, di Adina Pintilie.
Ognuno ha diritto ad amare (Touch me not, il titolo originale dell'opera) segna il debutto di Adina Pintilie alla regia di un lungometraggio. Il film non è una fiction, né un documentario, ma un prodotto sperimentale tra le due forme di narrazione.
Touch
me not ha vinto l'Orso d'Oro allo scorso festival di Berlino. La
premiazione ha colto i critici di sorpresa perché il film,
nonostante le intenzioni, ha diversi punti deboli.
L'occhio dietro
la cinepresa raggiunge il cuore drammaturgico della storia senza
pudore di sorta. Un certo voyeurismo, compiaciuto o naive, potrebbe
infastidire lo spettatore.
Le immagini scorrono provocatorie tastando un territorio primordiale, dove il linguaggio del corpo
sostituisce la comunicazione verbale. Un viaggio lungo i tabù alla
comprensione di sé. Tuttavia, il film s'innesta in un percorso
riabilitativo che finisce per diventare ripetitivo (e probabilmente,
è un effetto voluto per sdrammatizzare i contenuti).
Laura, Christian e Tómas. Tre personaggi in terapia. Laura non sopporta il contatto umano. Christian è costretto a una sedia rotelle. Tómas soffre di alopecia da quando, a tredici anni, ha perduto i capelli. Attraverso la ricerca di un'intimità confortante, i protagonisti cercheranno di superare i traumi intercorsi nella loro esistenza.
Ognuno ha diritto ad amare è un progetto durato sette anni. Come accennato, la critica non ha accolto con entusiasmo il verdetto della giuria di Berlino. Hanns-Georg Rodek (Die Welt) parla di una decisione scioccante; Jay Weissberg (Variety), lo descrive come un film ambizioso che mira ad affrontare più questioni di quante ne riesca a gestire; Peter Bradshaw (Guardian) si preoccupa dei contenuti volgari o, allo stesso tempo, ingenui.
Positiva, invece, la recensione di Deborah Young (Hollywood Reporter) che paragona l'opera a un tour de force coinvolgente, e quella di A. O. Scott (New York Times) che rileva un'esperienza ambigua: a tratti difficile da seguire, eppure scevra da sconvolgimenti emotivi.
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