Recensione del film Coco
“Coco” è il film d’animazione di Lee Unkrich ambientato nel mondo dei morti\r\n\r\n

Coco è il film d’animazione di Lee Unkrich nelle sale. Imelda Rivera era la moglie di un musicista. Il marito ha lasciato lei e sua figlia, Coco, per intraprendere la carriera musicale. Ma Imelda ha bandito la musica in famiglia e ha aperto una ditta di produzione di calzature. Intanto il suo bisnipote, Miguel vive con gli anziani Coco e la loro famiglia.
La passione per la musica emula un’altra simile, quello del film “Sing” uscito nel 2016 e prodotto dalla Universal. Lì le canzoni servivano per la carriera dell’imprenditore qui per nutrire una atavica nostalgia.
Quando Miguel guarda in televisione Ernesto de la Cruz, un attore e cantante popolare della generazione della nonna Imelda mostra tutta la smania per quel mondo e quella evasione.
Miguel scopre di essere discendente di Ernesto e vuole entrare in un talent show per il Día de Muertos (il Giorno dei Morti). Va nel mausoleo di Ernesto e ruba la sua chitarra, ma diventa invisibile a tutti tranne che al cane Dante e ai suoi parenti morti che appaiono come scheletri.
Da qui la maledizione su Miguel è inevitabile: deve tornare alla Terra dei Viventi prima dell'alba o diventerà uno dei morti, usando una calendula azteca che può annullare la maledizione. L’oggetto salvifico è presente in tutti i film Disney recenti: in “Oceania” era il cuore di Te Fiti cesellato in pietra Pounamu, che aiuterà la protagonista a sconfiggere il demone di lava Te KÄ.
In “Coco” emergono temi nuovi rispetto a quelli paludati disneyani: il rispetto dei defunti, la creatività - in questo caso la musica - come elemento per manifestare la propria originalità. In “Oceania” invece la storia rimaneva relegata ad un datato senso di responsabilità verso la famiglia. Infatti in “Coco” Miguel potrà tornare tra i vivi a patto che non suoni più, dovendo scegliere tra i suoi desideri e la vita. E il regista Lee Unkrich - vincitore dell’Oscar nel 2010 per “Toy Story 3” - sa ben destreggiare questa ambivalenza macabra, tra imposizioni ancestrali e conservatrici e un giovane senso di ribellione.
La Disney pare ormai livellata su medesime svolte dei personaggi, che dopo “Frozen” (2012) non riescono a progredire dal buonismo. Lì il cinismo di una principessa che seminava ghiaccio era il pretesto per un’eroina negativa che poi muta il proprio atteggiamento. Invece sia in “Oceania” che “Coco” i personaggi sono troppo positivi fin dall’inizio per condurre ad una peculiarità. E a questo aspetto “corretto” si cerca poi di aggiungere elementi macabri come il ”regno dei morti” che però sono paurosi come un fazzoletto bianco.
In “Coco” è la duplicità di “passione e morte” l’aspetto più innovativo e interessante del film, che soppianta i momenti stantii come quelli del mediocre complotto ordito da Ernesto, e gli alberi genealogici che si perdono nei decenni (Coco è la bisnonna di Miguel e figlia di Héctor e Imelda).
A ciò si aggiunge anche la fotografia vermiglia di Matt Aspbury e Danielle Feinberg, che richiama la civiltà azteca con i suoi sacrifici umani. Una impudenza che la Disney e la Pixar Animation Studios dovrebbero perseguire per adeguarsi ai tempi.
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