Festival di Venezia 2017, recensione del film 'Human Flow'
Cinema / Festival / News - 02 September 2017 14:30
"Human Flow" è il film in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia
Il film documentario “Human Flow” di Ai Awawei prende le mosse dai problemi attuali che vive ogni paese prossimo all’approdo dei rifugiati, e le motivazioni intrinseche che questi uomini nutrono. Il loro desiderio è fuggire dai bombardamenti che assediano le giornate, oppure avere una vita che possa essere definita basilare: una madre macedone è con la figlia piccola adornata da alcuni palloncini colorati, con la nonna che guarda spaventata verso la telecamera chiedendo cosa faranno ora che il confine è stato chiuso. La madre dice che vorrebbero solo “un po’ di pace”.
Per lo spettatore è difficile comprendere come sia possibile conciliare la diversità culturale cui non vogliamo essere abituati, con la giustezza delle ragioni dei rifugiati, i quali ambiscono solo ad avere cibo e dignità in un paese non loro. Soprattutto perché nella cronaca quotidiana emergono sempre più spesso notizie di fatti criminali compiti proprio da immigrati.
Ma il regista Awawei non riesce a focalizzarsi sugli effetti di questa immigrazione di massa: punta solo l’attenzione sulle ragioni di chi cerca aiuto, eliminando a priori le ragioni di coloro che dovrebbero offrirlo.
L’idea che Awawei propone è quella di una legittimità di questi spostamenti umani che coinvolgono oltre 65 milioni di persone nel mondo, perché l’aspirazione ad una vita equa è sempre condivisibile. Ma poi il racconto getta anche uno sguardo su quanto di inospitale sia accaduto in Europa, con la necessità di difendere un’organizzazione sociale che con questa mole di afflusso verrebbe scardinata. Cosi nel 2016 si è deciso di non ospitare più rifugiati provenienti dalla Turchia, e la comunità europea si è accordata con il governo turco.
Nel 2016, quando è stato girato Human Flow, 22 milioni di persone sono stati registrati come rifugiati, molti dei quali bambini che viaggiavano da soli. Si tratta di una realtà che non può essere ignorata, per la vastità della sua portata. E raccontare tutto ciò da diversi punti di vista, dalla Giordania all'Italia, dal confine greco macedone a quello ucraino rende il film ancora più tragico.
In Turchia ci sono 2 milioni di rifugiati, la cui presenza è giustificata dall'accordo del 2016 tra comunità europea e Turchia, in base al quale in cambio di 6 miliardi di euro la nazione ospiterà i rifugiati, favorendo occupazione e strutture essenziali. Accordo che da più parti è stato visto come una regressione rispetto a quanto accaduto nel dopoguerra.
Il regista Awawei è anche artista, e la seduzione di lasciarsi incantare dalle immagini spesso sovrasta la genuinità del documentario, come nella abissale inquadratura di una struttura dall’alto che sembra un formicaio e poi la macchina da presa si avvicina al suolo mostrando che in realtà si tratta di una piazza con delle persone. Un punto di vista artistico sulla vicenda, che restituisce un senso di tragedia continua che pone anche il dubbio su come noi dovremmo interagire.
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