'The Cousin', intervista ai protagonisti del film Tzahi Grad e Ala Dakka
Cinema / Festival / News - 07 October 2017 08:00
La pellicola è stata presentata alla 74° Mostra Internazionale del Cinema nell'ambito della Sezione Orizzonti
Quando si parla dei rapporti tra Israele e Palestina, ricorre spesso l’osservazione che arabi ed ebrei discendono tutti da Abramo, il che li rende dei popoli “cugini”. Questa convinzione rappresenta il tema fondamentale alla base di “The Cousin” (“Ha Ben Dod” in ebraico), la tragicommedia del regista, attore e sceneggiatore Tzahi Grad. Dopo aver ricevuto una calorosa accoglienza alla 74° Mostra internazionale d’arte cinematografica, il film ora è al Mill Valley Film Festival.
A Venezia abbiamo avuto l’occasione di intervistare Tzahi Grad e il co-protagonista di “The Cousin”, il giovane e talentuoso Ala Dakka.
D: Il film parla degli abitanti di un piccolo quartiere, di persone apparentemente normali che nel corso della storia si lasciano sopraffare dal pregiudizio, dalla paranoia. Perché ha deciso di raccontare questa storia? Qual è stata la sua ispirazione?
Tzahi Grad: Nella nostra zona c’è un sanguinoso conflitto che va avanti da molto tempo, da oltre 100 anni… e i media nel nostro Paese amano demonizzare gli arabi. Viviamo immersi in quest’odio, in una bolla dove la paranoia e la paura sono molto forti, e questo ti influenza. Nel film cerco di mostrare come i personaggi credano di fare azioni logiche. Se sai che nella casa accanto alla tua è stato commesso uno stupro, è normale avere paura. E se sai che la polizia ci metterà troppo tempo ad indagare, mentre il colpevole è lì sotto il tuo naso, è possibile che tu decida di agire da solo. Dopo aver cominciato, non si fermano, e questo fa paura. Sento che in questo momento la nostra paura degli arabi è molto forte, ma non ne parliamo. Io invece credo che sia rilevante, che tutto ruoti intorno a questa paura.
D: In questo Festival abbiamo visto anche "Foxtrot" di Samuel Maoz, un film molto critico verso le istituzioni militari. Possiamo dire che Israele sia un Paese arrabbiato, che sente il bisogno di criticare i poteri forti e le istituzioni?
Tzahi Grad: Quello che fa Maoz è un viaggio personale, non parte con l’intento di criticare la nostra società. Anche nel mio film, quello che conta è l’elemento umano. Ma in un certo senso sì, questi film offrono uno sguardo sulla società, cercano di dire, “Guardate dove siamo, stiamo smarrendo la strada, non ci ascoltiamo a vicenda, non ci comportiamo in maniera civile”. Dobbiamo tornare a comunicare. Non credo che il mio film voglia accusare esplicitamente il governo, ma siamo in una situazione difficile, ed è normale che le persone vogliano dire la loro opinione al riguardo, e tra queste persone ci siamo anche noi artisti.
D: Crede che l’artista abbia il dovere di essere “politico”?
Tzahi Grad: Non credo che l’artista abbia dei doveri. L’artista deve cercare di fare al meglio il suo lavoro, deve pensare alla sua arte. Se vivi in un posto pieno di problemi e ingiustizie, è possibile che questo si rifletta nel tuo film, ma il nostro lavoro è innanzitutto fare quello che ci piace.
D: Il film ha un tono tragicomico. Parla di cose serie, senza prendersi mai troppo sul serio. La risata a volte può essere uno strumento efficace per raccontare storie drammatiche?
Tzahi Grad: Non è stata una scelta consapevole [scegliere un tono tragicomico, n.d.R.], mi è venuto spontaneo. C’è l’umorismo perché è qualcosa che fa parte di me, non l’ho scelto perché pensavo che avrebbe influenzato di più lo spettatore. E’ una forma d’espressione, e il mio obiettivo è esprimermi nel modo più autentico possibile.
D: Il film mostra bene come le piccole comunità possano essere dei luoghi spaventosi, in cui delle persone apparentemente normali diventano dei mostri.
Tzahi Grad: E’ quello che è successo con i Nazisti. Sono sicuro che ci fossero molti bravi tedeschi che poi sono diventati nazisti e hanno fatto cose orribili. E poi in Rwanda, in Siria… gli umani tendono a seguire “il gregge”, a lasciarsi influenzare dalla massa.
D: Una domanda rivolta sia Tzahi Grad che ad Ala Dakka. Nel film vi dimostrate una grande “coppia comica”. Com’è stato lavorare insieme? Come avete sviluppato un rapporto così affiatato?
Tzahi Grad: Non lo so, è quello che succede quando si crea qualcosa. Insieme capivamo cosa non andava in una scena, e cercavamo di migliorarla. Ci veniva naturale, non stavamo troppo a pensarci. Non servono tante teorie, capisci d’istinto se qualcosa non funziona.
Ala Dakka: Tzahi è molto bravo a creare le situazioni, il contesto. Se hai un buon contesto, e una buona sceneggiatura, ti lasci guidare dall’istinto.
Tzahi Grad: Ala è solo agli inizi, ma ha un talento naturale.
Ala Dakka: Tzahi mi ha dato una grande opportunità. Non si trattava di una produzione da 20 milioni di dollari, quindi ho avuto l’occasione di andare dietro la cinepresa, di assistere al montaggio, di vedere come si fa davvero un film.
D: Una domanda per Ala Dakka. Come ti sei preparato per il tuo personaggio? Perché hai deciso di interpretarlo in quel modo?
Ala Dakka: Sono solo agli inizi, ma quando ti viene offerto un ruolo così ben scritto… non c’è molta preparazione da fare.
Tzahi Grad: Il suo personaggio è un rapper perché anche Ala lo è. La canzone che canta è stata scritta appositamente per il film. Ed è stata di Ala l’idea di accentuare l’aspetto religioso.
Ala Dakka: Abbiamo discusso molto dei vari modi in cui sviluppare il mio personaggio. Unire due aspetti così spesso in contrasto tra loro, come la musica e la religione, per me è stato molto interessante. La mia preparazione consiste nel leggere la sceneggiatura e poi dare tutto me stesso, con quanta più onestà possibile. Un’altra cosa importante è arrivare puntuali sul set!
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