Il cacciatore: ‘un racconto pop’, intervista all’attore della serie tv David Coco

Tv / Intervista - 28 March 2018 10:00

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Film Awake - video

Il cacciatore è la serie televisiva che va in onda su Rai Due: racconta la vicenda di Saverio Barone (Francesco Montanari), membro del pool antimafia di Palermo dei primi anni novanta. Barone negli anni ’90 arresta i boss più pericolosi della mafia siciliana, come Leoluca Bagarella (David Coco) e Giovanni Brusca (Edoardo Pesce). Per ottenere questo obiettivo di giustizia sacrifica la sua famiglia, gli amici. La spinta è ciò che accadde qualche mese prima, ovvero le stragi di Capaci e Via D’Amelio dove perirono il giudice Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

La serie è ispirata alla vera storia del magistrato Alfonso Sabella, e tratta dal suo romanzo autobiografico Cacciatore di mafiosi. Mauxa ha intervistato uno dei protagonisti, David Coco.

D. Nella serie tv “Il cacciatore” interpreti il latitante Leoluca Bagarella, che  ereditò il comando di Cosa Nostra dopo l’arresto di Totò Riina. Come ti sei avvicinato a questo ruolo così negativo?

David Coco. Ho volutamente escluso la possibilità di un lavoro di emulazione filologica. Anche perché realizzare una sorta di copia non era l'obbiettivo  né dai registi né del progetto in sé. Per quanto riguarda lo studio di quella persona, mi sono affidato a ciò che mi restituiva la sceneggiatura, e a ciò che sono riuscito a trovare su di lui. Ho considerato che dovevo interpretare un capomafia, che era cresciuto in un contesto mafioso, che ha sempre considerato quell’ambiente il suo orizzonte, la sua ragione di vita. Un capo, un uomo che non si è mai pentito, radicato in uno contesto e in una storia. Un uomo feroce. E nello stesso tempo un marito presente e  amorevole. Sicuramente ho interrotto il mio giudizio personale, escludendo quello sul suo carattere, affinché potessi raccontare tutti quesi aspetti.


Serie tv Il cacciatore

D. Bagarella sostiene la guerra totale allo Stato attraverso la strategia del terrore, con stragi come quelle di Capaci e il rapimento del piccolo Giuseppe Di Matteo, figlio del pentito Santino Di Matteo. Pensi che ci sia una razionalità alla base di questi gesti? 

David Coco. La linea interventista era di Totò Riina, di cui poi Bagarella prese il posto all’interno di Cosa Nostra. Provenzano era ancora latitante. Era un capo emerito, aveva la reggenza dell’ala stragista, di questo aspetto crudele. A lui sono imputati molti omicidi.
È chiaro che ha le sue ragioni, che non ammettono nessun tipo di contraddittorio. Tanto che non si è mai pentito. Lui credeva di essere nell’assoluta strategia all’interno di quel cammino oculato che serviva per mantenere il potere di Cosa Nostra. Anche se assurda, c’era una razionalità in quei gesti. Infatti non ho mai pensato di interpretare un pazzo,  

D. È vero che il set era molto coeso?

David Coco. Il lavoro tra tutti noi è stato davvero straordinario. Si è collaborato come non avevamo mai fatto prima in un contesto televisivo, in ogni reparto: da quello dei costumi alla regia, sceneggiatura e fotografia. Una sorta di work in progress, con un unico interesse da parte di ognuno: tirare fuori il migliore prodotto possibile. Era evidente questa concentrazione personale sul proprio lavoro, per ottenere un prodotto unico, unanime, che potesse essere un buon prodotto.

D. Le riprese dove si sono svolte?

David Coco. È stato un piacevole viaggio di sei mei, che maggiormente si è svolto a Palermo, con tutti gli esteri e interni. Una parte è stata girata a Roma.

D. Come è stata il lavoro di regia di Stefano Lodovichi e Davide Marengo?

David Coco. Anche loro si sono posti nel modalità di lavoro di un confronto continuo. Molto in ascolto. Il fatto di esser sintonizzati, facendo sì che ognuno potesse essere più libero, rimanda ad un range ben deciso. I registi ci hanno dato la sicurezza di poterci muovere, perché se agisci in maniera eccessiva c’è li sguardo del regista che ti consiglia. Questa è stata una cifra importante del nostro lavoro. Come degli artigiani che cercano di fare il migliore loro prodotto.


D. La serie parteciperà a Canneseries. 

David Coco. “Il cacciatore” è stata scelta dall’Italia per rappresentare la nazione. Quindi è tra le dieci migliori serie al mondo. Siamo abbastanza contenti, e sarà per la tv generalista una specie di pietra miliare, come se si fosse mutato il modo di raccontare. Essere verosimili ma non veri. Noi dobbiamo coinvolgere gli spettatori, la fascia più ampia possibile, perché pur raccontando degli avvenimenti lo abbiamo fatto  in maniera cinematografica, dal ralenti al montaggio, con un punteggiatura particolare della musica, una fotografia oculata. Un racconto pop, tutte cifre di un'opera cinematografica.

D. Ha lavorato anche a “Giovanni Falcone – L’uomo che sfidò Cosa Nostra”, “L’ultimo dei Corleonesi”, “Squadra antimafia 7”. Come mai secondo te questo genere di fiction ha ancora così successo, nonostante l’imperversare delle streaming con Netflix?

David Coco. “Narcos” adotta con Netflix lo stesso procedimento: lì si parla dei trafficanti messicani, qui dei mafiosi italiani. La tipologia non è differente. È il modo che cambia, che deve essere sempre accattivante. Stiamo costruendo un prodotto che deve essere visto. La lotta dei buoni contro i cattivi, che è sempre di interesse.

D. Ho letto che hai iniziato a recitare anche per superare anche la timidezza. È vero?

David Coco. In realtà mi venne chiesto come mai un attore può essere timido. Il mio lavoro è rappresentare  dei caratteri, personaggi. In questo caso lo considero un lavoro. Se dovessi però stare in una situazione in cui non avessi nessun personaggio da raccontare, in quella posizione esposta mi sentirei in imbarazzo. 

D. Qual è il tuo prossimo progetto?

David Coco. Per ora ci sono delle cose di cinema, ma per ora non sono definite e quindi non posso parlarne. Invece voglio raccontarti di un progetto teatrale finito da poco, “Il giuramento” scritto da Claudio Fava, per la regia di Ninni Bruschetta. È andato in scena fino a marzo e l’anno prossimo probabilmente riprenderà anche a Roma visto il successo di pubblico. È la storia di uno dei dodici professori universitari che nel 1931 non prestarono giuramento al fascismo, all’Università di Torino. È  un gesto di libertà, nessuno sapeva della scelta. Io interpreto uno di questi dodici, Mario Carrara, professore di Antropologia Criminale all’Università. È bellissimo ricordare questo gesto dei professori: abbiamo avuto un grande calore dal parte del pubblico. In ogni città abbiamo avuto ottima accoglienza, e io non sono uso alle iperboli in generale. Lo spettacolo durava solo un’ora e dieci minuti, e le persone all’uscita dai camerini mi dicevano: “Poteva durare anche di più”. Al di là del fatto storico, che contestualizza questa scelta del professore nel periodo del fascismo, l’aspetto straordinario è che questa decisione di non giurare fedeltà al fascismo diventa un sunto di libertà. Assolutamente attuale, che riguarda davvero tutti. Il pubblico si chiedeva cosa avrebbe fatto in quella situazione lì. “Noi abbiamo deciso di non giurare, per rimanere dentro”, dice uno dei professori. Il loro gesto era una definizione di libertà. Mario Carrara finirà in carcere: tutti e 12 verrano cacciati dall’Università.

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