Venezia 73: recensione di Brimstone o dell'inesorabile avanzamento del destino
Cinema / Recensione - 04 September 2016 09:30
Martin Koolhoven dirige Dakota Fanning, perseguitata da Guy Pearce, nel suo ultimo film presentato a Venezia in concorso, per una notevole co-produzione internazionale che abbraccia diversi Paesi euro
Dakota Fanning è la potente protagonista del dramma esposto in Brimstone che attraversa il tempo e lo spazio, abilmente manipolati da Martin Koolhoven, per una altrettanto incisiva riflessione sul destino in chiave religiosa in cui il “mostruoso” antagonista è impersonato dall’eccellente Guy Pearce.
Liz (Dakota Fanning) vive insieme alla sua bambina, a suo marito e al figlio di lui in un remoto paesino in cui ha trovato riparo e accoglienza, ma non sarà più al sicuro nel momento in cui giungerà il nuovo reverendo del paese (Guy Pearce), un uomo del quale non viene mai pronunciato il nome, ma che incute timore alla povera Liz, non più in grado di parlare perché le è stata tagliata la lingua. Quando il reverendo condurrà alla luce il suo vero volto, nuocendo alla famiglia di Liz, inizieranno a susseguirsi dei capitoli in cui si scoprirà a poco a poco la vera identità di Liz e del reverendo, oltre alla relazione tra i due, per un capitolo finale in cui la loro storia giungerà ad una labile, transitoria conclusione.
Martin Koolhoven, dopo l’ultimo Winter in Wartime risalente a ben 8 anni fa, torna con un nuovo mastodontico lavoro partecipante alla competizione che vedrà il vincitore essere premiato con il prestigioso Leono d’Oro veneziano. Diviso in quattro significativi capitoli, Apocalisse, Esodo, Genesi e Castigo, il film ritorna sui suoi passi rileggendo a ritroso la storia sulla quale poggia, partendo da una situazione presente e riavvolgendo il nastro per due capitoli che scavano all’interno della cronologia degli eventi e risalgono alla radice, dove tutto ha avuto inizio, per poi terminare la vicenda dei singoli personaggi con un quarto capitolo in cui il castigo viene elargito.
Dakota Fanning sostiene un’intensa performance all’interno di un prodotto che mostra un’epicità racchiusa in un’epoca passata, adatta ad inserirvi la creatura peccatrice per eccellenza, il diavolo. Guy Pearce dà anima e corpo a quella che appare come un’entità maligna, con abiti rigorosamente neri, che si pongono in vistoso contrasto con quelli candidamente bianchi della ragazza nel terzo capitolo, entità che sembra poter essere considerata personificazione del diavolo, che entra nell’aspirale vorticosa del peccato e della tentazione senza alcuna via di scampo, tanto da immedesimarsi con il peccato stesso, divenendo un fiero antagonista senza possibilità alcuna di redenzione. Altra associazione che può essere evidenziata ritrae il reverendo di Guy Pearce come personificazione questa volta del destino, che sceglie arbitrariamente chi deve vivere e chi invece deve cadere nelle braccia della Morte, per un personaggio che sembra volutamente ispirarsi al destino personificato di Non è un paese per vecchi, il pluripremiato film dei fratelli Coen.
Le scene di Brimstone incastellano la storia in scompartimenti che si aprono per scoprirne il contenuto, non volendo mostrare come andrà a finire la vicenda narrata, piuttosto incentrando l’attenzione su come tutto è iniziato e soffermandosi anche sulla responsabilità piena da attribuire alle proprie azioni, per quanto libere possano non essere. Nonostante il film guardi cronologicamente indietro, è ribadito il fatto che non si può tornare indietro sulle proprie scelte e, guardando di sfuggita a Il fu Mattia Pascal di pirandelliana memoria, non si può mentire riguardo la propria identità perché prima o poi il destino farà il suo corso, fermando l’avanzata della menzogna, per quanto essa possa essere necessaria per tirare avanti, e ristabilendo l’ordine naturale delle cose.
© Riproduzione riservata