One More Time With Feeling: recensione del film in cui Nick Cave narra la morte
Cinema / Recensione - 14 September 2016 18:10
Andrew Dominik ha presentato, Fuori Concorso al Festival di Venezia 2016, un potente documentario incentrato sulle memorie e registrazioni di Nick Cave, leader del complesso The Bad Seeds, scavando ne
Ancora questa sensazione, è con queste parole che viene tradotto il verso della canzone che dà il titolo al brano One More Time With Feeling dei The Bad Seeds, titolo che viene ripreso dal regista Andrew Dominik per il suo lungometraggio indagante barlumi di genio del cantante del gruppo, il tormentato Nick Cave.
Il film, che abbraccia la formula documentario, inizia su sfondo nero, uno sfondo in cui si apre la vita privata del leader del gruppo The Bad Seeds, Nick Cave, attraverso sensazioni esposte dalla voce narrante. «Non credo più nella narrazione», con queste parole Nick Cave esordisce come narratore di se stesso e di tracce della sua intima storia, che abbraccia tanto l’esecuzione di alcuni tra i nuovi brani contenuti nell'ultimo album Skeleton Tree, poeticamente decantati nel corso del documentario, quanto cenni della perdita del figlio Arthur, a cui partecipa con ricordi ed impressioni passate anche la moglie. Rispetto al modo canonico di esporre una storia, la camera 3D in bianco e nero decide di procedere per ampi movimenti, a volte circumnavigando Nick Cave durante l’esecuzione di un brano, a volte lasciando che il testo e le note della canzone fungano da collante per un vorticoso viaggio nei meandri di spazi adiacenti alla sala di registrazione, spazi in cui solo l’occhio della macchina da presa può insinuarsi.
Si discorre riguardo la natura profetica della canzone intesa come sogno. «Le canzoni che scrivo contengono elementi di ansia, angoscia che possono prevedere eventi», con queste parole è sempre Nick Cave a fungere da perno del documentario di Andrew Dominik, chiamato anche a commentare la sua stessa registrazione, dando voce ai pensieri provati in quel particolare momento in cui tutto intorno tace e solo il suono della musica funge da guida per il testo, una musica distorta, psichedelica, che fa da eco alle pene provate dall’esecutore, riproponendo un mondo di pensieri in rotta di collisione con lo stesso.
«Non credo che la vita sia una storia», ecco perché Nick Cave ha deciso di accantonare il lato narrativo nelle sue canzoni, procedendo per assonanze, echi, ricordi frantumati da traumi. Con parti richiamanti in causa la forma videoclip, più tortuosa e musicalmente ammaliatrice, unite e mescolate insieme a momenti più riflessivi, dove la macchina da presa di Andrew Dominik rimane immobile, scrutando memorie di un tempo passato, si riflette sul concetto di morte, condotto in causa costantemente dall’utilizzo di forti tonalità di nero poste in contrasto con pesanti e pressanti bianchi angelici.
E così corpi, anime, fluttuano esattamente come fa la cinepresa, ad esempio con un carrello circolare ben visibile, nello spazio circostante e si impongono sul presente, offrendo un senso di inquietudine che pervade il mondo e, con esso, le canzoni che hanno reso i The Bad Seeds immortali.
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