Mine: recensione del film countdown interiore per risolvere conflitti dell'animo
Cinema / Recensione - 05 October 2016 08:00
Fabio Guaglione e Fabio Resinaro scrivono e dirigono un film cangiante, capace di mutare il proprio volto di genere seguendo le fasi di trasformazione che vedono coinvolto il protagonista, un inedito
Armie Hammer è il protagonista indiscusso del lungometraggio, Mine, che vede dietro la macchina da presa due menti italiane, Fabio Guaglione e Fabio Resinaro, capaci di imporsi non solo nella loro madrepatria ma anche all’estero, accaparrandosi il sostegno di imponenti produzioni, una tra tutte The Safran Company, guidata da Peter Safran.
Mine si apre con una missione affidata nelle mani del soldato Mike Stevens (Armie Hammer), cecchino chiamato ad uccidere un pericoloso terrorista in una desolata distesa desertica. Questo è l’evento scatenante che conduce il protagonista, scortato dal collega ed amico Tommy (Tom Cullen), ad intraprendere un viaggio alla ricerca tanto del villaggio più vicino, quanto di se stesso. E proprio mentre sembra che siano quasi giunti alla meta, i due entrano inavvertitamente in un campo minato. Pensando a come tentare di sopravvivere in una situazione che conduce la mente ed il corpo a prove estreme, Mike dovrà fare delle scelte apparentemente legate solo alla sua condizione fisica, di inevitabile stallo, ma in realtà ancorate ad un sentimento interiore.
Fabio Guaglione e Fabio Resinaro, in arte Fabio&Fabio, sono i due registi, nonché sceneggiatori, di provenienza milanese che sono riusciti a farsi strada nel mondo della Settima Arte. Giungendo al cospetto di produzioni internazionali, che hanno trovato decisamente interessanti loro precedenti lavori, come il cortometraggio Afterville premiato Miglior Corto Europeo al Sitges nel 2008, i due autori riescono a realizzare il loro primo lungometraggio, scritto e diretto a quattro mani: e allora ecco che prende forma Mine, un film che muta costantemente tanto il genere di appartenenza quanto i moti dell’animo di chi è chiamato a viverlo.
Mine si apre con un adrenalinico incipit che, godendo di un montaggio serratissimo e di conseguenza di una mole di inquadrature che si addensano creando un’eruzione di pathos notevole, anticipa il conflitto primario di cui tempo e spazio sono meri strumenti: il protagonista è preda di un dramma sepolto nell’inconscio che non gli permette di andare avanti. Nel momento in cui Mike si rende conto di aver calpestato una mina, blocca se stesso, immobilizza il suo corpo costringendolo a confrontarsi con le sue paure, dando inizio ad un countdown verso la scelta, andare avanti verso ciò che sarà oppure rimanere bloccati indietro, entro i confini di ciò che è stato. Tenendo in considerazione tali premesse, appare evidente come il deserto, ossia il luogo dell’azione/non-azione, assuma una pregnante valenza simbolica: non è unicamente l’ambientazione fisica entro cui avviene il viaggio (il deserto è stato ricavato in post-produzione dalla spiaggia dell'isola di Fuerteventura), esso rappresenta anche il non-luogo dell’anima, uno spazio metafisico utile per confrontare se stesso con le paure irrisolte e ritrovare se stessi.
Fabio Resinaro e Fabio Guaglione si sono dimostrati in grado di padroneggiare tanto l’esposizione narrativa, di un dramma interiore che si riflette costantemente verso e nell’esterno, quanto gli strumenti registici, offrendo un racconto scorrevole, intenso, riflessivo e riflettente la condizione dell’uomo intrappolato in se stesso. Anche il “genere” si mette al servizio del personaggio: e allora il film cambia i suoi connotati e da war movie sfocia in dramma, per poi virare verso il survival perché il lungometraggio di per sé vuole essere massima espressione e superficie riflettente della trasformazione del protagonista, un Armie Hammer che dà prova di saper sostenere un ruolo centripeto senza vacillare, ma risultando costantemente convincente, per un prodotto con radici italiane, Mine, che non delude.
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