Gli invisibili: recensione del film dialogo impossibile tra il caos societario e l'essere umano

Cinema / Recensione - 16 June 2016 08:00

Oren Moverman dirige Richard Gere in un film in cui appare evidente l'incomunicabilità tra gli esseri umani, vittime dello stato di isolamento da essi stessi perpetrato, lasciando al tempo pres

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Gli invisibili presenta una trama in cui non regna l’avvicendamento di azioni e reazioni, bensì fa da padrone l’intima riflessione su ciò che è stato e ciò che sarà in un annullamento del tempo presente che affligge il solitario protagonista, interpretato da Richard Gere e diretto da Oren Moverman.

Richard Gere veste i logori abiti di George, un senzatetto la cui vita sembra aver perso di significato. Abbandonato da tutto e tutti, nel cuore di una città metropolitana come New York che fa del suo frenetico caos la sua ragion d’essere, George vaga per vie senza meta. Tentando di trovare un qualche rifugio non solo dalle intemperie climatiche, ma anche dalla sua estrema solitudine, il protagonista si ritrova al Bellevue Hospital, un centro di accoglienza per homeless nei meandri di Manhattan. Addentrandosi nella cupa miseria che regna sovrana tra le quattro mura del centro, George entra in contatto con i reietti della società, ma un barlume di speranza si accende: George fa la conoscenza di un veterano del centro, nei cui panni si cala Ben Vereen, ed insieme al suo unico amico tenta di restituire un senso alla sua amara esistenza.

Come suggerisce lo stesso titolo attribuito all’opera, Gli invisibili, traduzione italiana per Time out of Mind, il film ruota intorno al tema portante dell’incomunicabilità dettata dalla condizione di invisibilità dell’essere umano verso il suo simile. Nonostante l’appartenenza degli esseri umani allo stesso ceppo d’origine, l’umanità stessa, essi frappongono invalicabili barriere tra se stessi e gli altri, non permettendo in alcun modo di instaurare un sano dialogo incentrato sulla scoperta reciproca l’un dell’altro.

Oren Moverman attraverso Gli invisibili vuole mostrare da vicino l’estrema inconciliabilità tra il singolo e la società, che viene a confluire nella solitudine più opprimente e straziante, personificata da un protagonista che non ha più nulla da spartire con il mondo circostante. Il mondo nel quale è costretto a trascorrere i giorni che gli rimangono da vivere non lo accoglie, né lo giudica, semplicemente lo ignora, alimentando quel grave senso di vuoto interiore di un personaggio che si chiude in se stesso e, rimanendo a contemplare il mondo senza rimanerne invischiato, prova dolore e allo stesso tempo pena per le sorti di un’umanità così ceca nei confronti del prossimo.

E allora la macchina da presa di Oren Moverman è come se rappresentasse uno dei tanti esseri umani che porta avanti la sua esistenza senza aprirsi agli altri in quanto non si avvicina mostrando primi piani indagatori, ma rimane distaccata, preferendo essere testimone da lontano di quanto accade al protagonista, senza poter intervenire attivamente, per un film che si muove proprio come i suoi personaggi, in un universo dove regna l’incomunicabilità.

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