Intervista Padri e Figlie, Gabriele Muccino: fare il genitore è un lavoro che non finisce mai

Cinema / Drama / News - 29 September 2015 13:00

Padri e Figlie, intervista al regista Gabriele Muccino in occasione dell'uscita del suo ultimo film, nelle sale a partire dal prossimo 1 ottobre.

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Mauxa intervista il regista Gabriele Muccino, in giro per l’Italia a promuovere la sua ultima fatica, un film prodotto ad Hollywood che annovera tra le sue fila attori del calibro di Russell Crowe, Amanda Seyfried, Aaron Paul, Diane Kruger, Bruce Greenwood e Jane Fonda. La pellicola racconta la complicata relazione tra un padre e una figlia, soli dopo la morte della madre; in un susseguirsi di salti temporali dagli anni ’80 ai giorni nostri, ne nascerà un’emozionante spaccato di vita, dove i dolori del passato si ripercuotono nel presente, e l’amore sembra essere l’unica salvezza possibile. 

D. È più difficile fare il regista o il papà?

R. Sicuramente il papà, perché non sai mai quando sbagli e dove sbagli: è un lavoro che non finisce mai. Non bastano i genitori perfetti poi, c’è anche tutto il mondo esterno, e non si può controllare. Direi che è più complesso fare il genitore perché è più difficile il raggiungimento del risultato finale, che è quello di ottenere la felicità di un figlio o di una figlia.

D. Quanta libertà ha avuto nel girare il film?

R. In questo caso il 100%, non c’è stato alcun vincolo da parte della produzione. So che ad Hollywood ci possono essere degli esempi complementari, ma dipende anche dal genere di film. Ovviamente ci sono dei compromessi per girare in piena libertà: il budget è più ristretto e la distribuzione limitata, ma si rimane comunque all’interno della serie A cinematografica.

D. E la scelta del cast?

R. In ogni film che ho girato non ho mai avuto un solo attore imposto. Anzi dirò che per questa sceneggiatura la produzione aveva scelto un altro attore (di cui non posso fare il nome), ma io ho voluto solo Russell Crowe. Tutti coloro che sono venuti a lavorare con me l’hanno fatto perché avevano già letto la sceneggiatura e ne erano rimasti colpiti. Inoltre il bagaglio di lavori precedentemente realizzati garantiscono un discreto lasciapassare per ottenere star di un certo calibro.

D. Visti i temi delicati, c’è stato bisogno di qualche consulenza specialistica sul set?

R. Ho voluto che uno psichiatra leggesse la sceneggiatura e che mi desse un suo giudizio, volevo essere sicuro di quel che dicevo. In ogni film ho sempre fatto riferimento ad un consulente, prima delle riprese di Sette Anime ho assistito persino ad un’operazione a cuore aperto… Anche se mediamente cerco di parlare di ciò che conosco, di cose tangibili.

D. I suoi film sono quasi delle sedute di analisi. 

R. Ognuno porta con sé il proprio vissuto. Per esempio Diane Kruger ha un vissuto che mi ha esposto e che nel film viene fuori. Io costringo gli attori a parlare di se stessi e dei loro personaggi, che non sono gladiatori o alieni, ma persone che conosciamo molto bene: tutti siamo alla ricerca della compiutezza, dando risposte ai nostri travagli quotidiani, in un modo più o meno estremo o drammatico. I miei film parlano sempre di questo struggimento davanti alle grandi domande che la vita ci costringe ad affrontare.

D. Come ha lavorato Russell Crowe a contatto con una bambina così piccola?

R. Russell ha messo subito la bambina a proprio agio ed è riuscito a creare un’alchimia incredibile con lei. È un attore incredibile, è uno che sa giocare di squadra, e questo lo sanno fare solo i grandi. Inoltre i bambini come Kylie Rogers possono essere considerati più di semplici attori, perché riescono ad immedesimarsi tantissimo nella storia; quando piangono e si disperano davanti alla telecamera, lo fanno sul serio. Questa è la bellezza e la fragilità di lavorare con dei bambini.

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