Festival di Venezia 2017, recensione del film 'This is Congo'

Cinema / Festival / News - 02 September 2017 08:00

This is Congo è il film documentario presentato al Festival di Venezia

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Film All of Us Strangers - video

This is Congo è il documentario di Daniel McCabe che illustra l’attuale situazione della popolazione congolese, in bilico tra dittatura e impossibilità di uscire da un pantano politico.

Se da una parte il giovane Comandante Mamadou è in prima linea con l’obbiettivo di difendere Goma - capoluogo di provincia del Nord Kivu - dagli attacchi della milizia ribelle M23, dall’altra la dittatura per cui lui lavora non è differente da qualsiasi ribellione. Tanto che quest’ultima potrebbe apparire anche legittima.

Infatti il Congo - con settantacinque milioni di abitanti - fu annesso tra le nazioni europee nel 1908, sfruttato per le sue ricchezze minerarie fino al maggio del 1960, quando la pratica indipendentista trovò un leader in Patrice Lumumba. Lui ottenne la maggioranza in parlamento potendo così istituire la Repubblica e divenne primo Ministro: cinque anni dopo Joseph Mobutu organizzò un colpo di Stato e divenne dittatore. Seguirono anni di corruzione, di genocidi, aumentando una gestione anarchica per cui il Congo è divenuto il crocevia tra soggetti commerciali, organizzazioni umanitarie e gruppi armati ribelli. Il patrimonio di risorse naturali estraibili è stimato in 24000 miliardi di dollari, per cui la situazione di stabilità appare perenne.

Nel documentario il regista Daniel McCabe si schiera dalla parte della popolazione, l’unica vittima inerme votata alla fame, tanto che cinque milioni sono gli abitanti morti. E in un paese in cui a novembre 2016 sono state abolite le elezioni cosicché l’attuale dittatore può governare in maniera imperitura, documentare ciò che accade è arduo per via delle connivenze politiche che non permettono di avere informazioni pure .

Ma McCabe sceglie anche una direzione narrativa, tanto che in un momento siamo con i soldati sulla loro camionetta, mentre avanzano verso la postazione dei ribelli con lo scopo di neutralizzarli. Il lancio dei proiettili, l’eco delle esplosioni, la musica di sottofondo che ammanta di pseudo-eroismo l’azione militare fa quasi credere che ci si trovi in un film di finzione, non troppo diverso dalle descrizioni dei cecchini che fa Clint Eastwood in “American Sniper”.

Ma qui tutta la vicenda è reale, e per questo più cruda. Tanto che la macchina da presa racconta poi la storia di Mama Romance, trafficante di pietre preziose che per far studiare i figli ha scelto questo lavoro pericoloso. Si rifornisce di materie prime nelle miniere degli altopiani congolesi per poi trasportarle illegalmente oltre il confine e venderle in Kenya. Di Hakiza, sarto che trasporta la macchina da cucire pr eseguire lavori. Dello stesso Comandante Mamadou, ormai famoso per le sue gesta e acclamato come un “messia”, anche se nelle sue risposte traspare un proprio dubbio sulla liceità della sua lotta.

Il regista ha cominciato a lavorare al documentario nel 2008, creando poi una rete di contatti nella regione mineraria del Kivu, e appassionandosi alla imponderabilità dei motivi che stazionavano dietro il perdurante conflitto. E grazie all’aiuto del produttore Geoff McLean - che ha lavorato a videoclip musicali di Prince, Rihanna, Drake, Calvin Harris - ha illuminato una realtà sconosciuta che per la vastità della sua portata drammatica non condivide nulla con i tour dei safari turistici.

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