Recensione del film 500 Years, la distruzione dell'attuale civiltà Maya
Cinema / Recensione - 03 August 2017 08:00
"500 Years" è il film documentario sul genocidio della civiltà Maya attuale, acclamato dalla critica. Mauxa l'ha visto in anteprima.
500 Years è il film di Pamela Yates presentato a New York nei giorni scorsi, e che ha già partecipato al Sundance Film Festival ottenendo il consenso della critica. È distribuito dalla Paladin Film.
Le donne Maya che partecipano ad un processo sono un’immagine eloquente delle lotte secolari che imperversano sul territorio messicano. Le loro vesti colorare, pitturate di sfumature arancioni male si adattano a sermoni legali, ma il genocidio compiuto sulla loro popolazione esige un senso di giustizia che le porta a dover lottare contro un governo sordo.
Nel mese di gennaio 2013 una lunga fila di Maya indigeni si dirige nell'Alta Corte Costituzionale, istituzione storicamente dominata dagli interessi di una piccola minoranza bianca elitaria. La giornalista e antropologa Irma Alicia Velásquez Nimatuj afferma che questa popolazione “si alza dalle ceneri del genocidio, e che ancora vive nella paura”. Infatti tre decenni prima l'élite dirigente, sostenuta dagli Stati Uniti con un colpo di stato rovesciò un governo democraticamente eletto, entrando in un tunnel di repressione e massacri che mieterono 200.000 morti indigeni. I medesimi artisti urbani, intellettuali e gli attivisti sono scomparsi.
Dopo tredici anni di perseveranza i sopravvissuti Maya portarono uno dei principali artefici del genocidio, l’ex dittatore Efraín Ríos Montt a processo: lui è dichiarato colpevole ma dopo dieci giorni - sotto una pressione politica - la Corte Costituzionale annulla il verdetto per un problema di tecnicità.
Al processo una testimone coperta con un velo piange raccontando il massacro subito dalla sua famiglia. Poi emerge la voce della difesa: “Io dubito dell’attendibilità di alcuni testimoni”.
Il documentario di Pamela Yates pur se indugia nei momenti del processo, non prende posizione su queste opinioni. Forse conscia che l’ideologia del potere dominante non potrà garantire la giustizia ai Maya: enormi progetti internazionali come miniere aperte, dighe idroelettriche, aziende agricole sproporzionate sono istallate nei territori Maya, che continuano ad essere distrutti. Secondo l’antropologa Irma Alicia, "se il governo concede tutte le licenze che le aziende hanno richiesto, ci sarà una miniera ogni 60 miglia quadrate”.
Se il processo per molti è stato deludente, per altri è inteso come una minima e improbabile vittoria della popolazione indigena.
Il merito è stato quello di smuovere le coscienze, con la classe media urbana che è uscita per protestare, unendosi a migliaia di persone Maya. Si sono unite alla resistenza superando il divario razziale. Si è fondato un collettivo mediatico con giovani che fanno veicolare le notizie sul web.
L’Hollywood Reporter ha apprezzato proprio la capacità del documentario di mostrare l’”oltraggio”, mentre il The New York Times conferma che il lavoro porta a sostenere i suoi soggetti persino nell'omissione dei dettagli da parte della regista.
Emerge alla fine un’amara constatazione, che una civiltà già massacrata nel 1500 dagli occidentali debba ancora sedersi dietro gli scranni di un tribunale per proclamare la propria dignità.
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