Paradise Beach – Dentro l'incubo: recensione del film dove la tensione passa in secondo piano
Jaume Collet-Serra dirige un film che mescola action a sfondo drammatico portando avanti una storia che vede uno scontro a tu per tu con la natura più selvaggia, incarnata dal mostro marino per

Blake Lively, la popolare Serena della serie televisiva Gossip Girl, è la protagonista del dramma Paradise Beach – Dentro l’incubo, che si consuma a pochi metri dalla riva di un paradiso naturale, ma ricco di minacce in agguato.
Il film Paradise Beach – Dentro l’incubo si sviluppa principalmente intorno ad un unico ambiente, la spiaggia paradiso naturale circondato da rocce che nascondono una temibile minaccia. Nancy (Blake Lively) si reca sull’incantevole spiaggia in cui un tempo soleva andare la madre, di cui custodisce un prezioso ricordo anche sotto forma di foto che porta sempre con sé. Amante del surf, la ragazza decide di sfidare le onde del nuovo paradiso terrestre insieme a due giovani del luogo ma, proprio quando i due giovani stanno per andare via a bordo della loro jeep, Nancy viene travolta da un pericolo sottomarino inaspettato: uno squalo, che precedentemente aveva attaccato una possente balena, si scaglia contro la giovane, costringendola a trovare riparo su mezzi di fortuna. Invocando aiuto in un posto tanto isolato quanto apparentemente pacifico, Nancy si ritroverà a dover fronteggiare l’imponente mostro marino per rimanere aggrappata ad un unico ramo, quello della sopravvivenza.
Strutturando un dramma one to one tra il singolo essere umano ed una tra le più temute creature marine che si possano ricordare sin dai tempi de Lo squalo (1975) del maestro Steven Spielberg, il regista Jaume Collet-Serra dà corpo ad una sceneggiatura in cui funzionali bit narrativi mandano avanti la vicenda presentata, uno tra tanti quando, prima del primo attacco sferrato dallo squalo, la scena viene proposta come se la creatura stesse per attaccare, e invece si vedono affiorare in superficie innocui delfini.
Blake Lively, protagonista di Paradise Beach – Dentro l’incubo, è il perno onnipresente utile a strutturare dialoghi in campo controcampo che però risultano eccessivamente prolissi e poco sfruttabili a livello narrativo, conferendo allo script un tono eccessivamente fondante talvolta sulla parola, talvolta sulle “esibizioni” sulla tavola da surf, che non fungono da collante per le scene presentate, bensì distolgono dalla creazione del grado di tensione volto a sostenere la minaccia incombente.
Usufruendo anche di una sorta di split screen per mostrare in più momenti il contenuto di messaggi ricevuti sul cellulare, tentando di aumentare l’attenzione dello spettatore nei confronti dei contenuti inviati e ricevuti, teoricamente utili a definire personaggi e situazione, in realtà, esattamente come per i “numeri” eseguiti sulla tavola da surf, distolgono la tensione dello spettatore, non preparandolo adeguatamente alle scene più ricche di pathos in cui avviene l’incontro tra preda e predatore, sminuendo il lavoro svolto in modo convincente dalle riprese inerenti gli scontri in mare.
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