Mostra del Cinema di Venezia 2025, recensione serie tv Il mostro
Scopri Il mostro, la serie tv fuori concorso alla Mostra del Cinema di Venezia

Francesci Vinti (Giacomo Fadda), Stefano Mele (Marco Bullitta), Giovanni Mele (Antonio Tintis). Tutti nomi separati, ma accomunati da alcuni dei delitti più voyeuristici d'Italia: sono loro a essere connessi agli omicidi del mostro di Firenze, raccontati nella serie Il Mostro, diretta da Stefano Sollima.
Nel 1968, il primo è
l'amante della moglie di Stefano Mele, Barbara (Francesca Olia), un uomo
succube delle sue radici: Mele – per inerzia - concedeva la moglie a Vinti, e a
suo fratello. Mele la mattina porta la colazione a Vinti e alla moglie, che
dormono nella sua camera. Quando Vinti s'ingelosisce della nuova frequentazione
della donna, convince Mele ad assassinare lei e il nuovo amante: mentre Barbara
sta amoreggiando nella campagna fiorentina con l'amante – e il figlio piccolo
dorme nel sedile posteriore – li uccide con una scarica di proiettili, e poi dà
la pistola a Mele, affinché lui s'incolpi dell'assassinio. Mele accetta, perché
altrimenti Vinti ucciderà il figlio.
Trascorrono gli anni, e Mele sconta la sua condanna: uscito dal carcere, si comprende che non può essere lui il mostro di Firenze, perché un'altra coppia è stata uccisa in auto. La detective (Liliana Bottone) fatica a incastrare tutti i pezzi del puzzle, frantumato da bugie. Soprattutto ora che Stefano Mele accusa Vinti di averlo costretto a mentire, e che il fratello Giovanni è indagato: l'uomo, infatti, portando fuori a cena a una donna, la conduce poi nel luogo degli omicidi del mostro, descrivendo con dovizia di particolari come avvennero i delitti. Sollima ci conduce con un pedinamento certosino nelle varie fasi degli otto delitti, compiuti tra il 1968 e il 1985.
Schede
Ne emerge un'Italia
atavica, legata a tradizioni quasi ancestrali: quando Stefano Mele sposò
Barbara, il padre voleva abusare di lei perché "queste sono le regole
della famiglia". Se Barbara aspirava alla libertà, la suocera le imponeva
di restare in casa. Nei primi episodi emergono con veemenza le varie
sfaccettature della vicenda, rimasta complessa anche dopo la condanna di Pietro
Pacciani: lui stesso fu assolto nel secondo grado di giudizio. Furono accertate
le responsabilità solo per il primo delitto del 1968 e i delitti successivi tra
il 1974 e il 1985 sono rimasti senza una conclusione, nonostante i processi
contro Pietro Pacciani, Mario Vanni e Giancarlo Lotti. Una serie apparentemente
insoluta ma in realtà complessa da incastrare nelle varie tessere: come lo sono
i delitti, che sancirono un fenomeno nuovo, diverso dai crimini del passato, in
cui la serialità non era così marcata e il modus operandi non era così
intricato.
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