Bianca come latte, rossa come il sangue: il libro dell'esordiente D'Avenia non convince
Daily / Libri / Recensione - 13 March 2010 10:43
Si è tenuta presso la Feltrinelli di Milano la presentazione del libro "Bianca come il latte, rossa come il sangue", romanzo d'esordio di Alessandro D'Avenia. Arrivati in libreria, sembra piuttosto di ritrovarsi sul set de "I liceali", tanti sono i ragazzini assiepati attorno alla giovane promessa del romanzo italiano, tutto preso dal firmare autografi come se già avesse vinto il Premio Strega; saranno dei fan dello scrittore, si dirà, ma è presto svelato l'arcano. D'Avenia si è portato il pubblico da casa.
Lecito, d'altronde lui nella vita fa il professore di lettere in un paio di licei milanesi, sventolando massime del tipo "la vita è bella", "in fondo siamo tutti buoni", "i giovani hanno bisogno di attenzioni" e via dicendo. Meno male che c'è lui a dircelo! Come si può resistere ad un simile affabulatore? Se eravamo già scettici dopo aver letto il libro, si lascia intuire di che morale potevamo essere dopo aver sentito i primi 15 minuti di pubblicità fatti dal moderatore Daniele Bresciani. Al quale va riconosciuta l'abilità di non portare mai l'autore su terreni scomodi e scivolosi, osannando unicamente quei pochi punti chiave. Ma di questo parleremo a breve. Entriamo nel vivo della questione: parliamo del romanzo (se proprio dobbiamo...).
In sintesi, il libro è la storia di un amore tra due adolescenti, in particolare due liceali, Leo e Beatrice. Lui è uno sbarbatello come tanti, un sedicenne sfrontato e svogliato, che trascura la scuola per dedicarsi alle partite di calcetto con gli amici e che non saprebbe mai farsi mancare un classico come Mac e Coca. Lei è la ragazza bella e perfetta, inarrivabile e con un'aria da snob che contraddistingue molte sue coetanee. Ad interrompere questo idillio, solo ipotizzato fino ad un certo punto, arriva la morte, qualcosa di terribile e quasi sconosciuto per un bambino di sedici anni, che difficilmente oggi si ferma a riflettere sul senso della vita, sul perché esista la morte ecc. Ma D'Avenia va oltre, e nei suoi monologhi (per bocca di Leo) vuole metterci anche Dio, perché no, visto che ci siamo...Mica vorremo farci mancare un pezzo da novanta come Dio! E infatti ad un certo punto entra in scena - guarda un po' il destino - proprio un supplente (Il Sognatore), alter ego dello stesso d'Avenia, ad aiutare Leo a farsi strada tra le innumerevoli ansie e dubbi che lo colgono. L'amico che non sa ascoltarti, la famiglia che ti opprime e sa solo metterti in punizione, la scuola che ti assilla e l'ombra della morte (sotto forma di leucemia) che si allunga a carpire la persona della quale sei innamorato. Tutto sembra andare storto, persino con l'aiuto di un'amica come Silvia, inseparabile fonte di saggezza e conforto che ben presto scoprirà di nutrire qualcosa di più che una semplice amicizia per il povero Leo.
Ci sarebbe materiale per un bel romanzo, ma purtroppo così non è. Lo scrittore (erroneamente paragonato al più fortunato Paolo Giordano, al quale niente lo accomuna) in più di un'intervista ha affermato di non aver mai avuto ambizioni letterarie alte, e di voler scrivere un romanzo che parlasse dei giovani semplicemente per quello che sono, dal suo punto di vista. Già una contraddizione in termini di linguaggio e di stile: non si capisce infatti perché un romanzo che parli di giovani studenti liceali non possa essere al contempo interessante, coinvolgente, complesso e scritto con uno stile che usi termini diversi da "pisciare" o dal solito gergo da coatto di borgata. Le atmosfere evocate, tipiche di una pubblicità della "Mulino Bianco", non fanno altro che sminuire l'importanza che il tema meriterebbe. Forse D'Avenia, dall'alto dei sui 30 e passa anni, e reduce da ben due lauree in Lettere, farebbe bene a rileggere Pasolini e Hemingway, e un po' meno Moccia.
Che D'Avenia voglia insinuarsi in quel tunnel del "teen novel" aperto dal celebre scrittore dei lucchetti è lecito da pensare, visto il target al quale mira questo racconto.
"E poi c'è il rompipalle professionista: Giacomo, detto Puzzo. un altro nome che porta sfiga! Perché è lo stesso di Leopardi, che era gobbo, senza amici e pure poeta. nessuno ci parla con Giacomo. Puzza. e nessuno ha il coraggio di dirglielo."
Ma di racconto dobbiamo parlare, perché usare il termine romanzo è quanto meno inappropriato, e sarebbe oltretutto offensivo nei confronti dei maestri che hanno contribuito a fondare il genere, da Dickens a Balzac. Non basta farsi raccontare qualche storiella di vita vissuta (come lo stesso professorino ha detto: "Se non fosse per i miei studenti io non saprei di cosa parlare") e poi fare "copia e incolla" per scrivere un libro con la minima ambizione. E non basta nemmeno fare qua e là il nome di qualche celebre film hollywoodiano - si passa da Spiderman a Pirati dei Caraibi passando per i Simpson - o di qualche nota canzone, strizzando l'occhio ad un certo tipo di lettore adolescente, per far crescere il livello della prosa. La sintassi fatta di frasi scontate, banali e stereotipate - nemmeno fossero rivolte a bambini delle scuole elementari, e lì potremmo capire il fine didattico - le figure retoriche azzardate e le metafore ad ogni costo contribuiscono a stancare il lettore ancor prima della metà del libro.
"Quel silenzio mi entra nel cuore come un imbianchino che ne voglia rivestire le pareti di bianco, cancellando il nome di Beatrice e coprendolo di uno strato uniforme."
Mancano riferimenti letterari forti, l'approfondimento psicologico dei personaggi - i ragazzini parlano come dei piccoli bulli americani, forse ispirati a certi telefilm adolescenziali - e appare da subito debole la struttura interna del libro, divisa in capitoli brevi e scandito da una voce per lo più in prima persona. Lo scrittore sembra confuso, pare che sia riuscito a scrivere un saggio di narrativa per bambini pensando invece ad un romanzo. Soltanto a pagina 180 (sulle 256 totali) si riesce a trovare qualche spunto interessante, rendendo chiaro sin da subito che il resto serve ad allungare il brodo. Del resto gli unici spunti colti si trovano nella prefazione e nella dedica finale del libro, dove rispettivamente troviamo un brandello di una fiaba di Calvino, "L'amore delle tre melagrane" - dalla quale D'Avenia saccheggia il titolo - e una citazione dalla "Vita Nova" di Dante. Per il resto, arida banalizzazione di sentimenti, già vista e già letta purtroppo.
Sorprende sentire dal coro di lettori e studenti presenti in sala, la testimonianza di due professori, alle prime esperienze da supplenti, che si complimentano con lo scrittore per come ha descritto l'ambiente liceale nel suo racconto, riuscendo a definire un rapporto professore-studente diverso dal solito legame cattedratico che invece nelle nostre scuole prevarrebbe. Stando a questi esimi signori, probabilmente, i docenti dovrebbero iniziare a raccontare barzellette "ex cathedra", e magari organizzare tornei di Playstation un giorno si e uno no. Certo sarebbe il nuovo "paese dei balocchi", non fosse altro per tutto quello che ci sarebbe da fare per la nostra Scuola pubblica già abbastanza provata. Ci mancano solo i professori sognatori. Ma la dura realtà chi gliela spiega ai nostri ragazzi? Peccato viene da dire, perché l'ardore non comune che contraddistingue il D'Avenia professore non ha ceduto il passo allo scrittore, e anzi ha finito col prevalere, soffocando con un minimo di protagonismo il libro e i personaggi ad esso legati, che ne risentono fatalmente.
"La supplente è per definizione un concentrato di sfiga cosmica. Primo: perché sostituisce un professore, che di per sé è già uno sfigato, e quindi la supplente è una sfigata al quadrato. Secondo: perché fa la supplente, che vita è lavorare per sostituire qualcuno che sta male? cioè: non solo sei sfigata, ma porti anche sfiga agli altri. Sfiga al cubo."
L'unico spunto vincente che D'Avenia ha il merito di aver "inventato" (se c'è qualcosa di originale nel libro) è quello dell'uso continuo di due colori, il bianco e il rosso, a simboleggiare rispettivamente aridità, noia e passione, desiderio. Questi due colori scandiranno le vicende di Leo e lo porteranno a superare le difficoltà trovando alla fine il vero amore, mentre non sono d'aiuto allo scrittore nel tenere le fila della dal suo teatrino. Forse sarebbe stato meglio se D'Avenia avesse lasciato "bianche" le pagine di questo libro. Ci sarebbe da approfondire anche la questione di Irene, ragazza di 15 anni del liceo romano "Dante Alighieri", scomparsa nel 2004 all'età di soli 15 anni per un caso di leucemia e dalla quale D'Avenia pare abbia tratto a piene mani per il suo libro; la stessa madre dalle colonne del Corriere della Sera si è detta seccata e amareggiata per l'uso che è stato fatto della sua vicenda personale dallo scrittore. Ma su questo lo scrittore glissa e sorvola. Non c'è spazio nelle sue presentazioni auto-celebrative per queste cose.
E dire che nemmeno la falsa modestia è il forte di questo professore, che esce con la sua prima pubblicazione, non esattamente meritevole, a ben 19 euro.
Alessandro D'Avenia, Bianca come il latte, rossa come il sangue, Mondadori, p. 256, 19 euro.
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