Recensione del film Hostages
Cinema / News - 14 February 2018 08:00
Il film è tratto da una storia vera
Hostages è il film di Rezo Gigineishvili con Avtandil Makharadze e Irakli Kvirikadze.
Nel 1983 la popolazione della Georgia - che orbitava ancora sotto l’influenza sovietica - vive in una situazione in cui le persone erano private degli elementi che nelle altre civiltà erano normali.
Se gli anziani sono sottomessi a questo stato sociale e quasi lo giustificano - anche perché Stalin era georgiano - i giovani mostrano gli elementi di quella che fu definita la “generazione dei jeans”, intesa come desiderio di libertà, aspirazione ad uno stile di vita che potesse far esprimere liberamente la creatività.
Questi stessi giovani nel film cercano di violare le frontiere della ”cortina di ferro” e compiono il dirottamento di un areo diretto a Batumi, cittadina balneare vicina alla frontiera turca, così da farlo atterrare oltre-confine.
Nella prima metà del film “Hostages” si propone un clima sociale apparentemente cauto, in cui ogni ambizione è soffocata, per giungere ad un gesto plateale che porta la storia quasi su un livello superiore.
I giovani infatti sono inesperti, e il dirottamento si rivela tragico: all’interno dell’aereo si genera il caos, i piloti vengono uccisi assieme a diversi passeggeri, membri dell’equipaggio e alcuni dirottatori.
Segue un processo ed una condanna esemplare, tesa ad evitare tentativi di emulazione e dimostrare lealtà nei confronti di Mosca. In questa maniera la ricerca di un benessere ulteriore è completamente compromessa così come la possibilità di giustificare il gesto dei dirottatori. Emerge - nonostante le semplificazioni del film - la teoria per cui una modalità di pensiero è condizionata dall’ambiente politico, e i gesti degli assalitori sono quasi un prolungamento dell’ipocrisia politica del momento.
A ciò porrà poi rimedio il presidente Gorbaciov con la Perestroika (rinnovamento) e la Glasnost (trasparenza), sancendo anche un cambiamento ideologico. Lo stesso regista Gigineishvili con una modalità quasi documentaristica segue i suoi personaggi in balia dei loro interrogativi, quasi fossero dei bambini che non hanno avuto regole. Per sette anni ha interrogato centinaia di testimoni, analizzato documentazioni per giungere all’epilogo secondo cui tutti coloro che hanno partecipato alla tragedia sono delle vittime, che non debbano essere né accusate né celebrate.
Questa presa di posizione è forse quella che lascia più sconcertati, perché in tale modo ogni gesto esecrabile viene giustificato. Quando poi si adduce la colpa primaria alla politica, la causa di tali gesti è rinvenuta.
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