'L'arte deve far riflettere': intervista ad Ori Pfeffer protagonista di 'The Testament'
Cinema / Festival / News - 11 October 2017 15:00
La pellicola è stata presentata alla 74° Mostra Internazionale del Cinema nell'ambito della Sezione Orizzonti
A Venezia abbiamo avuto l’occasione di intervistare Ori Pfeffer, protagonista di “The Testament”, un film intenso in cui il regista e sceneggiatore Amichai Greenberg riflette sui temi dell’identità, della famiglia e dell’importanza della memoria, sia a livello individuale che collettivo. Pfeffer ha interpretato un piccolo ruolo in “Come ti ammazzo il bodyguard”, commedia con Samuel L. Jackson e Ryan Reynolds uscita la scorsa settimana nei nostri cinema.
D: Il film si regge quasi interamente sulle spalle del suo personaggio. Si sarà trattato senz’altro di un’interpretazione intensa. Come si è preparato per questa esperienza?
Ori Pfeffer: Amichai una volta era un uomo religioso, un ebreo praticante, quindi abbiamo passato molto tempo in posti come la Yeshivah [istituzione educativa ebraica che si concentra sullo studio dei testi religiosi tradizionali, n.d.r.], per ambientarci in un mondo che è molto diverso dalla nostra vita secolare; entri in una realtà che è tutta interiore, senza gadget, televisione, o bar. Ci si concentra sul dialogo con sé stessi, ci si isola da tutto quello che caratterizza la vita moderna. Ho cominciato a scavare, per capire cosa significa essere uno studioso dell’Olocausto, cosa significa chiedersi: “Cosa ne sarà di me, se perdo tutto ciò in cui credo, e che mi rende ciò che sono?” Ho cominciato a farmi domande che non mi ero mai posto prima. È stato un processo interessante, fare questo percorso in parallelo col mio personaggio. Mi sono reso conto di quanto, a volte, ci si aggrappi a ciò che si conosce. Per usare una metafora… è come cadere da una nave nel bel mezzo dell’oceano: cerchi di non mollare la presa, ma la nave si sta allontanando. E una volta che si è allontanata, è finita: galleggi solo in mezzo al grande mare blu. È stato interessante esplorare tutto questo.
D: Cosa pensa del suo personaggio? È un uomo introverso, che si batte per ciò in cui crede, non accetta compromessi. Ma al tempo stesso ha una relazione complicata con la sua famiglia.
Ori Pfeffer: Tutti noi, nella vita, scegliamo a cosa dedicare la nostra attenzione. È una cosa legata alla nostra identità: su cosa vogliamo concentrarci, per sentirci bene con noi stessi? Alcuni scelgono i figli, altri il lavoro, e così via. Il mio personaggio si concentra sul suo lavoro: vuole essere fedele a sé stesso, rispettare sempre la verità. Ma fallisce in ogni altro ambito. Il lavoro gli dà uno scopo, giustifica le rovine tra cui cammina; lo aiuta a mantenere una parvenza di normalità. Per me era una delle cose più interessanti della sceneggiatura: cosa succede quando la cosa che ti dava un senso di equilibrio comincia a sfuggirti, e perdi la bussola.
D: Com’è stato lavorare con questo regista? Aveva spazio per improvvisare, o doveva seguire fedelmente quel che c’era scritto sul copione?
Ori Pfeffer: È stato uno sforzo congiunto. Fortunatamente abbiamo avuto quasi tre mesi per prepararci. Il film si concentra tutto sulla mia storia, quindi sentivo che c’era il bisogno di parlarne a fondo durante le prove, senza sosta, per individuare le varie sfumature in ogni singolo momento del film. Tutto si svolge all’interno di una cornice molto ristretta, quindi ogni momento doveva apparire il più autentico possibile. Amichai mi ha aiutato molto con il lavoro di improvvisazione che abbiamo svolto prima di iniziare a girare. Per lui contava essere fedeli non alla parola scritta sul copione, ma all’intenzione. Per alcune scene ci sono voluti anche 20 ciak; ad esempio per quella in cucina, in cui litigo con mia sorella. Credo che sia la scena più lunga che abbia mai girato nella mia vita!
D: Una delle grandi domande poste dal film è: cosa significa essere ebreo, come un ebreo può definire la sua identità.
Ori Pfeffer: Credo che sia un’allegoria. Chiede cosa ci definisce in quanto abitanti di questo pianeta, a prescindere dalla fede. Il film cerca di dire che dobbiamo vivere la vita nel modo che preferiamo, e soprattutto essere rispettosi verso gli altri stili di vita, perché quello che tu ritieni vero, potrebbe non essere tale per qualcun altro.
D: Viviamo in tempi molto oscuri, dominati dalla paura verso i migranti e le minoranze. In quanto ebreo, che ne pensa di questo clima?
Ori Pfeffer: Penso che sia terribile. Stiamo andando all’indietro, a una velocità esponenziale. L’aria di nazionalismo… puoi sentirne l’odore in Medio Oriente, qui in Europa, in America. Credo che molta responsabilità ce l’abbiano i media. Non ho risposte su cosa dobbiamo fare, ma come individuo cerco di non gettare benzina sul fuoco, di esprimermi, di far parte di film che affrontano questioni importanti.
D: L’arte ha il dovere di far riflettere?
Ori Pfeffer: Assolutamente. L’arte è un ponte che mette in contatto le persone.
D: Un altro tema portante del film è l’importanza della memoria.
Ori Pfeffer: Non si tratta solo di ricordare: bisogna far sì che i ricordi influenzino le nostre vite. Un ricordo rischia di diventare una storia, e le storie spesso perdono valore, perché le senti troppo distanti da te.
D: Passando ad argomenti più leggeri, quali sono i suoi prossimi progetti?
Ori Pfeffer: Ho appena finito di girare un film con Nicolas Cage, “211”, dove interpreto il cattivo e vado in giro con tanto di pistole e fucili! Ho fatto anche un film con John Malkovich ed Adrien Brody che si chiama “Bullet Head”. Inoltre ho appena finito di lavorare sul set di un film di Netflix, “The Angel”, che dovrebbe uscire tra qualche mese.
D: Gli attori dicono spesso che le parti “da cattivo” sono più interessanti di quelle “da buono”. Lei come sceglie i suoi ruoli?
Ori Pfeffer: Mi piace mantenere un certo equilibrio, però è vero, quando fai il cattivo ti diverti di più!
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